Gli erbicidi usati dagli Stati Uniti cinquant’anni fa contro i Viet Cong durante la guerra del Vietnam potrebbero causare problemi di salute ancora oggi?
Secondo un nuovo studio di Scienze ambientali, l’esposizione al cosiddetto ‘Agente arancione,’ il nome in codice dato dall’esercito USA ad un defoliante con cui vennero asperse le foreste del Sud del Vietnam allo scopo di individuare i nascondigli nemici, potrebbe essere collegata ad un aumento dei livelli di alcuni ormoni nelle donne di quella regione e nei loro figli, nati decenni più tardi, esponendoli a gravi rischi per la salute.
Le ricerche precedenti avevano già accertato il legame esistente tra l’esposizione agli erbicidi che contenevano sostanze tossiche, come le diossine – il caso dell’agente arancione – e il cancro alla prostata negli uomini.
La diossina era ritenuta responsabile di neoplasie e teratogenesi, ma si riteneva che l’inquinante sarebbe scomparso dal suolo nel giro di una ventina d’anni, salvo permanere in tracce in materiali come il legno, dove poteva avere una vita un po’più lunga.
Il nuovo studio, condotto dai ricercatori dell’Università di Kanazawa, in Giappone, si focalizza per la prima volta sulle conseguenze che avrebbe potuto avere nel tempo la diossina sulle donne e sui loro figli.
“Il livello raggiunto dalla diossina nel Sud del Vietnam rende quella regione una delle più inquinate al mondo”, afferma il professor Teruhiko Kido, autore principale della ricerca. “Sappiamo che la contaminazione delle diossine ha un impatto devastante sui nostri livelli ormonali, ma abbiamo voluto saperne di più. Questa contaminazione, con i suoi pesanti effetti, non potrebbe essere stata trasmessa alle generazioni successive e quindi non potrebbe, anche solo potenzialmente, mettere in pericolo la salute dei figli delle donne contaminate che risiedono ancora in quelle aree?”.
La contaminazione da diossina con l’impiego dell’agente arancione raggiunse picchi massimi, con concentrazioni da due a cinque volte più elevate nelle aree del Sud del Vietnam rispetto alle regioni non contaminate del Nord.
‘Le diossine sono sostanze chimiche che possono determinare un inquinamento cronico’, si legge sulla pubblicazione ‘Diossine, Furani e PCB’ del Ministero della Salute italiano.
Tra i tanti danni che scatenano nell’organismo, producono alterazioni a carico del sistema immunitario, della popolazione dei linfociti, del sistema endocrino e interferiscono pesantemente nello sviluppo del feto, con effetti sullo sviluppo del sistema nervoso, sulla neurobiologia del comportamento e sull’equilibrio ormonale della tiroide.
“I decenni dello sviluppo industriale e delle sostanze chimiche rilasciate durante la guerra del Vietnam hanno innalzato i livelli di diossine nel suolo e nell’atmosfera e la popolazione assorbe queste sostanze chimiche dal cibo che mangia e dall’aria che respira”, afferma Kido.
“Che le diossine avessero un impatto sui nostri ormoni era risaputo, ma volevamo vedere se gli effetti contaminanti avessero potuto essere trasmessi dalle madri ai propri figli”.
Nel nuovo studio, il team ha esaminato e valutato 104 donne ed i loro neonati provenienti da due luoghi accuratamente selezionati.
E’ stata scelta una regione del Vietnam settentrionale che non era occupata dalle Forze Armate degli Stati Uniti e Bien Hoa, una città industriale dove gli americani conservavano circa il 50 per cento dell’agente arancione.
Nonostante una diminuzione naturale delle diossine negli ultimi cinquant’anni, i campioni ambientali e umani attorno a questa zona hanno rivelato ancora elevati livelli di inquinanti.
Gli scienziati hanno analizzato il livello della diossina nel latte materno e hanno testato campioni non invasivi di saliva dei neonati, controllando i livelli dell’ormone DHEA, lo steroide più abbondante negli esseri umani, implicato in molti processi biologici.
I risultati hanno mostrato un aumento di quasi tre volte del DHEA nei bambini delle regioni contaminate rispetto a quelle non contaminate.
Almeno su questo punto, non si può quindi escludere un collegamento con le diossine trasferite dalle madri ai figli attraverso il sangue ombelicale e il latte materno.
“Il nostro studio conferma la vulnerabilità dei bambini alle tossine ambientali cui i genitori e le generazioni precedenti sono state esposte”, commenta il professor Kido. “Ci sono ancora molte cose che ignoriamo sulle conseguenze che si possono avere nel tempo sulla salute dei bambini, ma studiare le persone in questi hotspot di diossina offre ai ricercatori la possibilità di capire meglio le implicazioni”.
Per questo, Kido intende seguire ancora, fino all’età di 10 anni, i bambini esaminati nello studio, per valutare con più accuratezza l’impatto endocrinologico dell’esposizione alla diossina durante la gravidanza e la prima infanzia.