Secondo una ricerca presentata oggi al IX Congresso Italiano di Teriologia, che si svolge da oggi fino al 10 maggio nel cuore del Parco d’Abruzzo, a Civitella Alfedena, in Italia i cambiamenti climatici influenzeranno il settore alpino orientale e occidentale, la valle del fiume Po, parte dell’Appennino centrale, in particolare le zone marchigiane e abruzzesi, le coste meridionali del Lazio e parte dell’Appennino calabro. Inoltre secondo la ricerca condotta dai ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma, tre sono le specie che saranno particolarmente vulnerabili: lo stambecco, il camoscio appenninico e la lince europea. In Italia, a differenza di ciò che succede all’estero, non esistono ad oggi programmi di tutela specifici dei mammiferi dal riscaldamento globale.
Gaianews.it, media partner del Congresso, ha raggiunto Michela Pacifici, dottoranda presso il Dipartimento di Biologia e Biotecnologia dell’Università, che ha presentato la ricerca al Congresso.
“Lo scopo della mia ricerca era identificare le aree italiane più esposte ai cambiamenti climatici che ospitano le specie di mammiferi maggiormente a rischio a causa dell’incremento previsto di temperature,” ha spiegato Pacifici. “Per queste aree ho scelto il termine di “hotspot” di specie vulnerabili ai cambiamenti climatici in quanto si tratta di zone importanti per la conservazione di specie a rischio, che meriterebbero quindi una particolare attenzione in funzione del loro ruolo per la sopravvivenza di queste specie in vista dei cambiamenti ambientali previsti.”
Così come ormai acclarato dalle relazioni del foro di esperti dell’IPCC i cambiamenti climatici sono un fenomeno globale e colpiranno anche il nostro Paese. Secondo la ricerca condotta da Pacifici, insieme con Carlo Rondinini ricercatore presso l’Università La Sapienza,e Piero Visconti ricercatore presso Microsoft a Cambridge, “si è evidenziato che le aree maggiormente esposte saranno quelle del settore alpino orientale e occidentale, la valle del fiume Po, parte dell’Appennino centrale, in particolare le zone marchigiane e abruzzesi, le coste meridionali del Lazio e parte dell’Appennino calabro.”
Dalla ricerca è emerso che sono tre le specie più vulnerabili: lo stambecco, il camoscio appenninico e la lince europea. “Una specie può definirsi minacciata dai cambiamenti climatici quando intervengono contemporaneamente i fattori di elevata esposizione, alta sensibilità e bassa adattabilità” ha spiegato la ricercatrice. Questo però non vuol dire che i ricercatori sanno ora cosa succederà esattamente, “ma aiuta ad identificare le priorità di conservazione nel caso in cui l’incremento di temperature procedesse effettivamente nel modo previsto” ha detto Pacifici che aggiunge: “Nel mio studio a scala nazionale per l’Italia le tre specie che sono risultate vulnerabili sono lo stambecco, il camoscio appenninico e la lince europea. I primi due, essendo ungulati di alta quota, sono legati a specifiche condizioni ambientali (temperatura, altitudine e precipitazioni) che li rendono particolarmente sensibili. Inoltre, come la lince, hanno tassi riproduttivi lenti che ne riducono la possibilità di colonizzare nuove aree. La lince in Italia poi è un caso del tutto particolare in quanto la specie è stata reintrodotta di recente nel nostro Paese ed occupa ad oggi un’area ristretta nelle Alpi orientali; inoltre, la sua popolazione a stento raggiunge i 15-20 individui ed è quindi altamente instabile, tutti fattori che aumentano il rischio di estinzione di questa specie in Italia.”
In Italia non esistono programmi specifici per la tutela dei mammiferi dall’impatto dei cambiamenti climatici, ma questo, come dimostra la ricerca, non vuole certo dire che non siano necessari. Probabilmente, ha spiegato Pacifici, questa sottovalutazione del rischio dipende dal “fatto che non sono ancora state riscontrate estinzioni a livello di specie dovute ai cambiamenti climatici per i mammiferi, e questo ha spesso portato a sottovalutare tale minaccia.”
Ma questo non vuole dire che il nostro Paese sarà “graziato”. “Come evidenziato dall’ultimo report dell’IPCC, l’aumento di temperature previsto per il 2100 sarà circa cinque volte maggiore rispetto a quello registrato negli ultimi 100 anni. Si stima che più del 30% delle specie a livello globale saranno a rischio di estinzione dovuto ai cambiamenti climatici, e che questi potrebbero diventare la minaccia principale per le specie nel futuro prossimo Alla luce di questi dati, è evidente la necessità di un programma specifico che si occupi di queste tematiche anche nel nostro Paese, come già accade in altri Stati. Ad esempio in Australia viene stilato periodicamente un piano d’azione sull’adattamento alle mutazioni del clima e fino a qualche mese fa esisteva addirittura un ministero dei cambiamenti climatici,” ha detto Pacifici.
Giovani stambecchi Foto: M.Speziari
Una volta che ci fossero dei programmi di indagine specifici basati su “un attento monitoraggio nel corso del tempo e nelle aree più esposte” ha spiegato la ricercatrice, “gli amministratori potranno decidere se è il caso di intervenire in maniera proattiva o reattiva, a seconda del grado di minaccia effettivo per la specie di interesse.” Ma “ciascuna azione che gli amministratori possono intraprendere è comunque specie-specifica e va valutata anche sulla base della scala di interesse per la conservazione.”
E monitoraggio e gestione sarebbero importanti visto che gli effetti riguardano per la maggior parte “uno spostamento dell’areale geografico delle specie che sono costrette a spostarsi verso altitudini o latitudini più elevate per cercare di ‘inseguire’ la propria nicchia climatica.”
“Purtroppo però non tutte le specie saranno in grado di spostarsi allo stesso ritmo dei cambiamenti climatici, ad esempio perché hanno ridotte capacità intrinseche di dispersione. Questo quindi potrebbe portare ad una perdita di porzioni di areale più o meno ingenti, con una limitata disponibilità di aree idonee occupabili. Tuttavia, anche le specie in grado di disperdersi potrebbero essere a rischio in quanto, nelle nuove aree climaticamente idonee, potrebbero instaurarsi interazioni interspecifiche (con predatori, competitori o parassiti) ad esse sfavorevoli,” ha concluso la ricercatrice.