Una nuova ricerca, condotta dall’Università di Southampton, Regno Unito, ipotizza che durante l’evento di rapido riscaldamento climatico che interessò la Terra 56 milioni di anni fa, il rilascio di metano dal fondo del mare, considerato il fattore scatenante del rialzo termico, sia stato in realtà molto più lento di quanto ritenuto fino ad oggi.
Organismi di mare profondo all’interno di idrato di metano ghiacciato sui fondali del Golfo del Messico (credit: NOAA, Golfo del Messico, 2012)
Lo studio, pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters, può aiutare gli scienziati a comprendere meglio come i potenziali effetti di un aumento delle temperature oceaniche in tutto il mondo possano essere collegati con i cambiamenti climatici attuali e futuri.
In passato, durante il cosiddetto ‘Massimo termico del Paleocene-Eocene’ o PETM (acronimo dell’inglese Paleocene-Eocene Thermal Maximum), le temperature delle profondità oceaniche subirono un aumento di circa 5 gradi centigradi, mentre in superficie raggiunsero anche i 9°C, valori che potrebbero non apparire così incisivi da scatenare conseguenze drammatiche per la Terra, come invece accadde.
Questo periodo caldo ebbe, infatti, una durata di circa 100mila anni, un arco di tempo in cui si verificò l’estinzione di molte specie animali.
Sulla base di minuscoli fossili depositati nei sedimenti dei fondali oceanici, da cui oggi si possono trarre utili informazioni sulla composizione chimica della massa d’acqua mediante l’analisi dei gusci, le attuali teorie suggeriscono che, contemporaneamente al riscaldamento delle acque, si sia sprigionato dalle rocce sottostanti gli oceani un massiccio rilascio di metano allo stato gassoso che avrebbe interessato sia l’acqua che l’atmosfera.
E’ risaputo che una gran parte del metano terrestre proviene dalla crosta sottostante gli oceani, dove è trattenuto sotto forma di un materiale simile al ghiaccio, un clatrato, che può fondere qualora la temperatura dell’oceano sovrastante salga oltre determinati valori.
La fusione di questo idrato fornisce un meccanismo, generalmente accettato, attraverso cui si possa formare metano, che va a diffondersi nell’acqua marina.
La ricerca degli studiosi dell’Università di Southampton, tuttavia, mette in dubbio l’efficacia di questo meccanismo.
Utilizzando i modelli computerizzati del processo di riscaldamento descritto, i ricercatori hanno simulato gli effetti del riscaldamento dell’oceano durante il PETM su sedimenti che, come i sedimenti pliocenici, avrebbero potuto contenere idrati di metano, e sulle modalità che questo metano avrebbe potuto seguire per essere rilasciato in mare.
Il professor Tim Minshull, docente di Scienze della Terra presso l’Università di Southampton e autore principale dello studio, afferma:
“I nostri risultati mostrano che la fusione dell’idrato può essere stata innescata da un cambiamento di temperatura dell’oceano, un riscaldamento di una certa consistenza, ma che probabilmente non ebbe come necessaria conseguenza una emissione rapida di metano.
Questo perché il metano gassoso, formatosi per fusione degli idrati depositati sotto il pavimento oceanico, richiede tempo per risalire fino al fondo marino; come pure richiede tempo il modo in cui il clatrato può anche ricongelarsi o disciogliersi o essere consumato dai microrganismi che vivono sul fondale. Solo una frazione di metano, quindi, avrebbe la possibilità di fuoriuscire in mare e la parte che rimane può richiedere migliaia di anni per seguire la stessa strada”.
“Per spiegare le osservazioni geologiche effettuate in relazione alla fusione degli idrati, bisogna quindi ammettere che all’epoca, a livello globale, sia stata presente una quantità di idrati molto più grande di quanto si ritenga”, ribadisce il professor Paul Wilson, direttore del Gruppo di Ricerca paleoceanografica e paleoclimatica della stessa Università. “Solo la presenza di una quantità più consistente di idrati spiegherebbe la temperatura così calda degli oceani del tardo Paleocene”.
“Per di più – aggiunge lo studioso – sarebbero stati necessari particolari percorsi, quali crepe, fessure, fratturazioni del pavimento oceanico, per consentire al metano di risalire dal fondo marino in tempi rapidi”.
“I nostri risultati mettono in discussione il ruolo fin qui ipotizzato degli idrati di metano durante il PETM”, conclude il professor Minshull. “Sollevano, invece, importanti interrogativi sulle modalità con cui anche oggi gli idrati possano essere messi in relazione con i cambiamenti climatici, dato che i tassi di riscaldamento attuali sono molto più alti di quelli che si ebbero durante il PETM”.
“Eppure, le osservazioni attuali sulla fusione e il rilascio di metano in diverse parti del mondo hanno portato gli studiosi a pensare che questo processo sia già in corso”.
Al momento, quindi, il dubbio permane.