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Il riscaldamento globale di 60 milioni di anni fa

Scritto da Leonardo Debbia il 27.05.2020

Circa 60 milioni di anni fa i cambiamenti della circolazione del magma nelle profondità del nostro pianeta generarono una corrente di roccia fusa – il cosiddetto pennacchio islandese – che raggiunse la superficie dell’Oceano Atlantico del Nord, fuoriuscendo attraverso Scozia, Irlanda e Groenlandia per generare spettacolari formazioni, visibili ancor oggi, quali la Giant’s Causeway in Irlanda del Nord e la Fingal’s Cave in Scozia.

La Giant's Causeway in Irlanda del Nord. Formazione geologica costituita da migliaia di colonne di basalto formatesi a seguito di eruzioni vulcaniche 60 milioni di anni fa

La Giant’s Causeway in Irlanda del Nord. Formazione geologica costituita da migliaia di colonne di basalto formatesi a seguito di eruzioni vulcaniche 60 milioni di anni fa

Quattro milioni di anni dopo, attraverso lo stesso percorso, una nuova gigantesca emissione di basalto fuso ricadde sulle acque dell’oceano, consolidandosi in ampie colate stratificate e collegando Groenlandia e Scozia con un ampio ponte di roccia solida.

Da sotto la crosta terrestre, il mantello rifluì attraverso i sedimenti di superficie, espandendosi in estesi ‘fogli’ orizzontali, noti come ‘sills’ (filoni-strato) che, cuocendo letteralmente la materia organica che incontravano, provocarono nubi di metano e anidride carbonica che si riversarono poi nell’atmosfera per millenni.

Sul pianeta si scatenarono intensi acquazzoni e la sopraggiunta acidificazione degli oceani portò all’estinzione di molte specie, marine e terrestri.

La temperatura media dell’atmosfera aumentò di 5-6 gradi. I Poli si coprirono di vegetazione, l’Artico si popolò di coccodrilli, tartarughe, microrganismi di acque temperate e palme, tanto che il paesaggio poteva essere paragonato all’attuale Florida, mentre le fasce equatoriali venivano ad ammantarsi di giungle paludose e foreste lussureggianti.

Gli scienziati hanno ribattezzato questo antico evento di riscaldamento globale ‘Paleocene-Eocene Thermal Maximum’ o PETM.

Quando ne furono scoperte le tracce, nei primi anni ’90, si ritenne che questo evento avrebbe potuto ripetersi in un futuro non troppo lontano, con le prime avvisaglie dell’avvento del nuovo cambiamento climatico, l’aumento delle temperature medie, l’acidificazione degli oceani e l’aumento del carbonio nell’atmosfera.

Erano timori che, anche se in fasi embrionali, inducevano qualche riflessione.

In effetti, molte caratteristiche vulcaniche del Nord Atlantico, concomitanti con il PETM, anche oggi potrebbero essere pensate come probabili cause favorevoli al riscaldamento attuale.

Di recente, tuttavia, uno studio di Stephen Jones, geologo presso l’Università di Birmingham, nel Regno Unito, ha dimostrato che una delle cause principali del riscaldamento del clima potrebbe essere, ad esempio, l’attività vulcanica.

Fino a qualche tempo fa, la maggior parte degli scienziati riteneva che alle origini dell’aumento delle temperature medie terrestri potesse individuarsi un tasso di riscaldamento simile al PETM, causato da piccole ma incisive fluttuazioni dell’orbita terrestre, che avrebbero favorito la dissoluzione di alcuni composti del metano congelato negli oceani sotto forma di clatrati.

Questa ipotesi era contrastata da molti altri studiosi, che ritenevano la quantità di materia emessa insufficiente per produrre effetti così marcati.

In un precedente lavoro su creste di lava a forma di V vicine all’Islanda, Jones aveva dimostrato che pressioni localizzate del mantello caldo si verificano periodicamente nella zona del pennacchio islandese, con la conseguenza di spingere verso l’alto le placche tettoniche adiacenti.

Per Jones queste creste sono ‘la pistola fumante’, la prova tangibile della validità della dinamica dei magmi ascendenti in questi hot pots, o punti caldi.

L’unico problema è che le creste islandesi non risalgono al tempo del PETM, ma sono di recente formazione.

Altre considerazioni invece potevano scaturire dall’esame delle estese formazioni di arenarie vicine alla Scozia che, ampiamente studiate e scansionate, anche nel corso di campagne petrolifere, hanno consentito di poter essere considerate i resti erosi dell’antico ponte di roccia sollevatosi nell’Atlantico 56 milioni di anni fa, in concomitanza con il PETM.

Ma quanto materiale, allora, poteva provenire dal mantello?

Si poteva calcolarne la quantità abbastanza accuratamente, scansionando il fondo marino alla ricerca dei ‘sills’; misurazione che è stata effettuata dai geologi Murray Hoggett e Karina Fernandez, i quali, dopo decine di migliaia di scansioni sismiche, hanno dedotto una quantità di sills oscillante tra gli 11mila e i 18mila.

Ricorrendo all’ausilio dell’ industria petrolifera, si è così potuta calcolare la velocità di emissione dei gas dai fondali marini in relazione al volume di sills, giungendo a constatare che i risultati concordavano con il rilascio di carbonio calcolato dagli isotopi dei sedimenti.

Alla luce di queste osservazioni, Lee Kump, un geoscienziato della Pennsylvania State University, fino ad ora nettamente favorevole all’ipotesi dei ‘clatrati’, seguito da altri colleghi, ha cambiato il suo punto di vista, definendo le conclusioni del nuovo studio come ‘prove convincenti che la Provincia Ignea del Nord Atlantico è il fattore scatenante e principale meccanismo dell’emissione di carbonio durante il PETM’.

Dello stesso avviso è Appy Sluijs, dell’Università di Utrecht, che ha concordato: “Il vulcanismo avrebbe sicuramente potuto scatenare l’evento”; aggiungendo comunque che il rilascio di clatrati ne potrebbero aver sicuramente amplificato la portata.

Altri scienziati, tra cui Richard Zeebem, dell’Università della Hawaii, sono di parere avverso e non abbandonano del tutto l’ipotesi che le orbite terrestri, in particolari periodi della storia del pianeta, avrebbero prodotto ulteriore calore solare, portando verso picchi di riscaldamento più pronunciati.

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