Incendio sul fiume Anaktuvuk, in Alaska
Dopo un’assenza durata 10 mila anni, gli incendi sono tornati nella tundra Artica. Uno studio dell’Università della Florida mostra che il loro impatto potrebbe andare ben oltre gli effetti immediati degli incendi sulla flora e fauna locali.
In uno studio pubblicato il 28 Luglio sulla rivista Nature, i biologi Michelle Mack e Ted Schuur dell’Università della Florida insieme a un team di scienziati hanno quantificato il carbonio rilasciato nell’atmosfera nel 2007 durante l’incendio lungo il fiume Anaktuvuk, che copriva oltre 1000 chilometri quadrati nella regione settentrionale dell’Alaska. Gli oltre 2 milioni di tonnellate di carbonio rilasciati in atmosfera – approssimativamente una quantità doppia di gas serra rispetto a quella prodotta in un anno dalla città di Miami – sono sufficienti a suggerire che gli incendi Artici potrebbero avere un notevole impatto sul cambiamento climatico, sostiene Mack, professoressa associato di ecologia degli ecosistemi dell’Univeristà della Florida.
“L’incendio del 2007 è stato un campanello di allarme” sostiene Mack. “In questa regione selvaggia, lontana centinaia di chilometri dalla città più vicina o da una fonte di inquinamento, stiamo assistendo agli effetti del riscaldamento atmosferico. E’ il segnale lampante che il ciclo Artico di carbonio potrebbe cambiare rapidamente e noi abbiamo bisogno di capire quali saranno le conseguenze”.
Il fumo prodotto dal rilascio dei gas serra nell’atmosfera è solo uno degli effetti del potenziale impatto dell’ incendio di una tundra. L’incendio ha consumato anche il 30% dello strato di materiale organico che protegge il permafrost al di sotto degli arbusti della tundra e del tappeto di muschio.
In una foresta di pini, il fuoco potrebbe bruciare lo strato di aghi ma non il suolo sottostante. Dal momento che la tundra artica ha un suolo ricco di carbonio, questo è suscettibile alla combustione, e quando il fuoco si spegne, parte del suolo è stata consumata. Per una doppia sfortuna, il delicato permafrost non solo è più esposto ma anche coperto da un terreno carbonizzato che assorbe maggiormente il calore solare e ne accelera la combustione.
“Quando il permafrost si riscalda, i microbi cominciano a decomporre quel materiale organico e rilasciano nell’atmosfera anche il carbonio che era accumulato nel permafrost da centinaia di migliaia di anni’ sostiene Mack. ‘Una quantità talmente enorme di carbonio, se rilasciata, potrebbe drammaticamente incrementare il diossido di carbonio nell’atmosfera”.
Sfruttando la datazione al radio carbone, Schuur e i ricercatori dell’University of Alaska Fairbanks e l’ Alaska Fire Service and Woods Hole Marine Biological Laboratory, hanno scoperto che nell’incendio del 2007 il carbonio aveva un’età massima di 50 anni.
Mack ha anche sviluppato un nuovo metodo che adesso può essere sfruttato da altri ricercatori per misurare le perdite di suolo nella tundra. Confrontando i ciuffi di piante che germogliano nuovamente dopo l’incendio, Mack è riuscito a quantificare l’altezza e la densità del terreno, prima e dopo la combustione.
Mack si augura che le sue scoperte possano avviare una discussione sulla gestione degli incendi nella tundra. Poiché l’incendio del fiume Anaktuvuk avvenne in una un’area selvaggia, non fu soppresso, né arginato. Con dei dati più precisi sull’impatto a lungo termine causato da un tale incendio, estinguerli potrebbe diventare più che una priorità.
“Questo incendio è stato un significativo campanello d’allarme, può succedere di nuovo, non solo in Alaska, ma in altre zone dell’Artico, come il Canada e la Russia” suggerisce Mack. “Estinguere un incendio in una zona selvatica è costoso, ma se le fiamme dovessero distruggere il permafrost? Bisogna discuterne.”