Ripan Mahli, antropologo dell’Università dell’Illinois sta studiando il DNA per ricostruire l’arrivo dei primi esseri umani sul continente americano e approfondire così la loro storia.
Malhi, ricercatore affiliato all’Istituto di Biologia genomica dell’Università dell’Illinois, descrive il suo approccio all’argomento, ricorrendo alla collaborazione dei nativi americani moderni.
Insieme ad un gruppo di Indiani Tsimshian, che risiedono sulla costa nord-occidentale della Columbia Britannica, Malhi ha trovato un legame tra antichi resti umani dell’area di Prince Rupert e le popolazioni che vivono oggi in quella regione.
I Tsimshian sono un popolo indigeno della costa settentrionale del Pacifico, le cui comunità, ammontanti a circa 10mila persone, sono ripartite tra la Columbia Britannica e l’Alaska, e la cui attività economica principale è la pesca del salmone.
Lo studio ha esaminato i cambiamenti del genoma mitocondriale, quello che i bambini ereditano dalla madre, non tralasciando comunque, ove possibile, l’esame delle modifiche al cromosoma Y, quello ereditato dal padre.
“La migliore opportunità per ricostruire la storia evolutiva dei nativi americani e di valutare gli effetti della colonizzazione europea è quella di analizzare i genomi delle antiche popolazioni e dei loro discendenti attuali”, afferma Malhi. “Quello che rende il mio laboratorio unico è che siamo concentrati non solo sul popolamento iniziale dell’America, ma anche su quello che è accaduto dopo. Ad esempio, mi chiedo come abbiano fatto questi gruppi a muoversi nel nuovo ambiente e ad adattarsi ai suoi cambiamenti nel corso di 15mila anni”.
La ricerca, pur svolgendosi nella Columbia Britannica, si estende difatti agli Stati americani della California e dell’Illinois, al Guatemala e al Messico.
“La caratteristica particolare delle comunità della fascia costiera nord-occidentale e di quelle della California era l’attività di cacciatori-raccoglitori, mentre quelle del Messico e del Guatemala erano società agricole che dovettero poi soccombere e assoggettarsi alla colonizzazione europea”.
Aspettando le conferme attese da Malhi, cerchiamo di ricostruire quanto si conosce ad oggi sui primi nativi americani.
Lo scorso anno un team di ricercatori della University of Pennsylvania ipotizzò che verso i 14-15mila anni fa popolazioni della Siberia meridionale avessero attraversato lo stretto di Bering semplicemente camminando sul ghiaccio, approfittando dell’abbassamento di livello del mare che rendeva possibile il passaggio tra Asia e America. L’espansione verso sud sarebbe avvenuta in tempi successivi, nei vasti territori del continente americano.
La grande variabilità geografica e climatica avrebbero contribuito alla suddivisione in una serie di popolazioni e tribù con usi, costumi e pratiche rituali estremamente differenziate.
A questa conclusione si arrivò analizzando una mole enorme di campioni genetici di diverse popolazioni asiatiche, soprattutto russe, mongole, cinesi, kazake e inuit, concentrandosi sul cromosoma Y che i maschi ereditano dai padri.
Anche se non sono state trovate altre tracce, non si può, tuttavia, escludere che altri gruppi etnici provenienti dall’Asia abbiano attraversato lo stretto di Bering in epoche diverse.
E’ lecito supporre che i nativi americani provengano quindi dal continente asiatico, anche se l’origine siberiana è messa in discussione dalle affinità genetiche con popoli del Sud asiatico.
“Lo scenario potrebbe cambiare dopo aver eseguito indagini approfondite sulle popolazioni della Mongolia”, concludeva nel suo studio lo scorso anno l’antropologo Theodore Schurr.
Ora, Malhi sta cercando conferme.