Dalla scoperta, risalente a quasi un secolo fa, dei resti fossili dell’Australopithecus africanus di Taung e con le scoperte successive di Paranthropus robustus, gli studiosi si sono trovati spesso in netto disaccordo sulle abitudini alimentari di queste due specie di ominidi sudafricani.
Esaminando la disposizione e l’orientamento delle radici dei denti fossili degli ominidi, un recente studio del Max Planck Institute per l’Antropologia evolutiva (MPI) di Lipsia, in collaborazione con le Università di Oxford e del Cile (Santiago de Chile), suggerisce ora che P. robustus avesse un modo veramente unico di masticare il cibo, mai osservato negli altri ominidi studiati finora.
P. robustus del Sudafrica; età stimata 1,9-1,5 milioni di anni. In evidenza, il primo molare superiore, ricostruito virtualmente (crediti: Kornelius Kupczik, Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology)
Anche tra i gruppi umani più primitivi, è abitudine diffusa che il cibo debba essere ben masticato in bocca prima di essere ingerito e poi digerito nello stomaco.
‘Prima digestio fit in ore’, ammonivano gli antichi Romani, che in fatto di tavole imbandite e di cibo se ne intendevano!
Ovviamente, il modo in cui gli esseri umani iniziano questo primo approccio all’alimentazione dipende da molti fattori; in primis, dalle proprietà meccaniche degli alimenti e dalla morfologia dell’apparato masticatorio.
I paleoantropologi dedicano gran parte delle loro ricerche alla ricostruzionere delle antiche diete, cioè le abitudini alimentari dei nostri antenati, poiché la dieta è da considerarsi la chiave per comprendere al meglio la nostra stessa evoluzione.
Un’alimentazione di alta qualità, che ha incluso magari un gran consumo di carne o di pesce, ha probabilmente facilitato l’evoluzione dei nostri cervelli, aumentandone le dimensioni, mentre la mancanza di una dieta ricca di nutrienti è stata, altrettanto probabilmente, causa dell’estinzione di alcune specie (ad esempio, del Paranthropus boisei).
Come detto sopra, la dieta degli ominidi sudafricani è rimasta, per lungo tempo, oggetto di controversie tra gli addetti ai lavori.
Utilizzando tecniche non invasive, come la tomografia computerizzata (TAC) ad alta risoluzione e focalizzandosi sull’esame particolareggiato della morfologia, gli autori hanno dedotto la direzione principale in cui è avvenuto il caricamento, ossia l’intensità della forza esercitata durante la masticazione, dal modo in cui le radici dei denti sono risultate orientate all’interno della mascella.
Confrontando le ricostruzioni virtuali di quasi 30 primi molari di ominidi vissuti in Africa meridionale e orientale, è stato così scoperto che l’Australopithecus africanus (Sud Africa) aveva radici allargate, molto più larghe rispetto al Paranthropus robustus e al Paranthropus boisei dell’Africa orientale.
P. robustus, a differenza di qualsiasi altra specie, mostra un orientamento insolito, ovvero una sorta di ‘torsione’ delle radici dei denti, che fa pensare ad un leggero movimento rotatorio avanti e indietro della mandibola durante la masticazione; una interpretazione del movimento, questa, supportata da altri tratti morfologici del cranio.
Ad esempio, la struttura dello smalto rivela anche l’applicazione di un carico complesso e multidirezionale, mentre l’insolito modello di microusura può anche testimoniare un diverso movimento della mascella, piuttosto che una masticazione di nuove qualità di cibo.
Evidentemente, non è solo quello che gli ominidi mangiavano e quanta forza abbiano potuto esercitare nella masticazione che può aver determinato la morfologia del cranio, ma anche il modo in cui le mascelle venivano a contatto durante la masticazione.
Il nuovo studio prova che l’orientamento delle radici dentarie all’interno della mascella è ottimo rivelatore per la comprensione dell’ecologia alimentare dei nostri antenati estinti.
“Forse i paleoantropologi non si sono posti le giuste domande sui resti umani fossili.
Piuttosto che concentrarsi su ciò che i nostri antenati mangiavano, dovremmo prestare attenzione a come masticavano i loro cibi”, conclude Gabriele Macho, dell’Università di Oxford.
A questo punto dobbiamo rivedere l’importanza della radice molare degli ominidi, che mostra più cose di quanto si sia pensato finora.
“Come anatomista e come dentista, capire come funzionavano le mascelle dei nostri antenati fossili è rivelatore, poiché possiamo applicare ciò che si apprende alla dentizione umana moderna, con l’obiettivo di comprendere meglio patologie come le malocclusioni o le errate chiusure delle arcate dentarie”, aggiunge Viviana Toro-Ibacache, dell’Università del Cile e co-autrice dello studio.