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Nella Venezia di Corto Maltese

Scritto da Valeria Gatti il 20.09.2013

Maschere a riposo, Valeria Gatti ©

Quel giorno stavo andando a Venezia, per incontrare un amico e fare un giro alla Biennale. La sera prima, pensando al viaggio in treno da Pavia, metto nello zaino il primo libro che parla della città trovato tra gli scaffali: “Corto Sconto: itinerari fantastici e nascosti di Corto Maltese a Venezia” di Vianello e Fuga. Nessuna aspettativa, non conscendo bene Hugo Pratt né le avventure del suo personaggio, solo curiosità.

Sin dalle prime righe si capisce che Corto Sconto non è una guida qualunque, bensì il risultato del bighellonare e del “cicchettare” dei due autori con il maestro Pratt. Un bighellonare denso di spunti, di fantasia e di posti da scovare. Mi intriga il doppio labirinto di terra ed acqua, la marea, i simboli nascosti e il bestiario che si disegna sotto i balconi, tra le calle. Mi intrigano i nomi dei ponti, dei vicoli strettissimi, gli armeni, gli ebrei, i mori e i cristiani. Così scopro che in quella che Goethe definiva “la città dei castori” ci sono passati proprio tutti: buon’anime, trafficanti, truffatori, prostitute e imbalsamatori.

 

Dal Tosi a Seco Marina, Valeria Gatti ©

E si insinua un viaggio nel viaggio. Da sopra il vaporetto che mi allontana dalla stazione di Santa Lucia, decido che mi lascio andare anche io a quello stesso bighellonare veneziano che mi ispira sempre più, lasciando il mio amico a fare altrettanto tra le opere della mostra, dimenticando le orde di turisti lì attorno.

Fermata dei Giardini. Scendo dal battello che è già mezzogiorno, mi incammino tra le panche e gli alberi dei giardini napoleonici. Senza troppa fatica, riesco subito a intravvedere l’arco del Sanmicheli del XVI° secolo, oltrepassato il quale ci si trova in Campo Sant’Iseppo, con l’omonima chiesa. Nel libro si parla del vertiginoso e disorientante interno, che io non ho potuto ammirare perché chiusa, e della raffigurazione della battaglia di Lepanto in cui domina l’influenza islamica.

Giardini della Biennale, Valeria Gatti ©

Lasciato il verde degli alberi, tra gatti, piccioni e macchiette del luogo, vado verso una grande cancellata, che mi porta a zigzagare tra le bancarelle e i negozietti della vivace via Garibaldi. Subito mi stupiscono le calle anguste che l’attraversano, i vicoli strettissimi e in penombra, in cui si sente il vociare di compratori del luogo che contrattano con i pescatori canocie, moleche  o peoci, prima ancora che facciano rifornimento in negozio. Proseguo, un canale si insinua nella via. Una barca piena di cassette di frutta: dalla terra ferma fanno la coda uomini e anziane signore per comprare come se fossero al mercato, tra le bancarelle della terra ferma. Mani che afferrano verdura, mani che danno il resto: i veneziani si muovono agevolmente, come se quella “distanza d’acqua”  non li toccasse minimamente, come se l’avessero nel DNA. Un bambino chiama alla finestra. Panni magicamente stesi ovunque, come quasi a voler compiacere i pochissimi turisti con le loro velature. Mai avrei immaginato di incontrare una Venezia simile a Genova. Anzi no, forse a Lisbona. Ma nemmeno. Mi sento felicemente confusa.

Velature, Valeria Gatti ©

Proseguo ancora e mi ritrovo casualmente in Calle delle Furlane, una vecchia zona popolare dove le donne del Friuli un tempo vivevano insieme, intonando i loro canti a ritmo di danze tradizionali nei momenti di riposo. Reti di pescatori, fontanelle, maglie a righe dei gondolieri che aspettano di asciugare. Giro due angoli e mi trovo a Seco Marina; al tavolo di una vecchia osteria, giocatori di carte con il bicchiere in mano. Questa era anche la zona delle “impiraperle”, signore che, usando appositi pettini, infilavano piccolissime perle per farne collane.  La percorro tutta, per poi ritagliare e tornare in via Garibaldi; da qui, mi dirigo verso San Pietro di Castello. Ancor prima di arrivare sul ponte noto il campanile storto Quattrocentesco della Basilica di San Pietro, l’antica cattedrale veneziana, di cui si vede anche l’imponente cupola. Fatto il giro dell’isolotto, torno sui miei passi, attraversando l’altro ponte, eccomi in Campo Ruga, catapultata in un altro mondo ancora. Maschere che riposano sui davanzali e sottoporteghi dai buffi nomi, fiori, barche a riposo, panni stesi sull’acqua. Un incanto. Non posso fare altro che fermarmi, fotografare e osservare dal basso dei gradini che portano al canale. Signore che rientrano con la spesa, anziani sull’uscio che passano il tempo chiacchierando con i barcaioli, bambini che giocano e un paio di turisti disorientati.

Campo Ruga, Valeria Gatti ©

Lasciando quel luogo tranquillo, mi rituffo in via Garibaldi e, percorrendo la stretta Calle Loredana, mi ritrovo nella Fondamenta della Tana: qui, tra l’odore di canapa e di salsedine, scopro, grazie a una lapide dove sono specificate le misure minime dei pesci un tempo commerciabili, che il barbon è un tipo di pesce gatto.

La Calle Larga dei Proverbi, la Calle dell’Amor degli Amici, la Calle dei Marrani. Il ponte delle Tette e la Corte Sconta. Il Ponte della Nostalgia e il Sottoportego dei Cattivi Pensieri. Com’è scritto a un certo punto tra le pagine “ Quando i veneziani sono stanchi delle autorità costituite, vanno in questi tre luoghi segreti e, aprendo le Porte che stanno nel fondo di quelle Corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie…” No, io ancora non la conosco Venezia, ma tornerò a farle visita. Una città anfibia, instabile e capricciosa, donna e bella come la zia Eglantine di Pratt, una città che si strizza l’occhio al Canal Grande e al Ponte dei Sospiri, socchiudendo antichi passaggi ai viandanti pazienti.

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  • Valeria scrive:

    Grazie per il bel pensiero Luca, grazie anche alla condivisione e alla trasmissione di emozioni passata attraverso gli autori :-)

  • luca scrive:

    Hugo sarebbe contento del tuo articolo