Una nuova ricerca di un gruppo di ricercatori della Woods Hole Oceanoghaphic Institution (WHOI), Massachusetts, della Wright State University dell’Ohio, dell’Observatoir Midi-Pyréneés in Francia e del Reale Istituto Olandese per la Ricerca Marina, compare sulla rivista Nature e fornisce il primo calcolo diretto della quantità di mercurio che inquina i mari terrestri, sulla base dei dati ottenuti da 12 ricerche di campionamento nel corso degli ultimi otto anni, offrendo anche una panoramica della distribuzione globale del mercurio marino.
“Per regolare le emissioni di mercurio nell’ambiente dovremmo sapere quanto ne stiamo aggiungendo ogni anno”, dice Carl Lamborg, del WHOI. “Finora non c’era modo di analizzare un campione d’acqua e capire quanto mercurio provenisse dall’inquinamento e quanto da fonti naturali. Ora abbiamo scoperto un modo per distinguere i contributi naturali dagli apporti umani avvenuti nel tempo”.
Il team ha raccolto i dati dei livelli di fosfato negli oceani, che può essere studiato meglio del mercurio e che nell’oceano si comporta più o meno allo stesso modo.
Si tratta di un nutriente che, come il mercurio, legandosi al materiale organico, passa nella rete alimentare marina. Con la determinazione del rapporto di fosfato di mercurio nelle acque profonde oltre 1000 metri, il team è stato in grado di stimare il mercurio presente negli oceani proveniente da fonti naturali, quali estrazione e combustione di combustibili fossili. I risultati ottenuti concordano con il modello conosciuto della circolazione oceanica globale.
Le acque del Nord Atlantico hanno mostrato tracce più evidenti di mercurio da inquinamento perché in quell’area marina le acque di superficie scendono in profondità, in conseguenza delle modifiche della temperatura e della salinità, per originare correnti di acque intermedie.
Il Pacifico tropicale e nord-orientale, invece, sono rimasti abbastanza inalterati perché le acque profonde impiegano secoli per circolare in quelle aree. Ma per determinare il contributo del mercurio di derivazione antropica era necessario fare un altro passo.
Per ottenere stime per acque poco profonde il team aveva bisogno di un tracciante, una sostanza che poteva essere ricollegata alle principali attività che rilasciano mercurio nell’ambiente. E il tracciante è stato trovato in uno dei gas più studiati degli ultimi 40 anni, l’anidride carbonica.
Banche dati del contenuto di CO2 nelle acque oceaniche sono disponibili per ogni bacino oceanico, praticamente per tutte le profondità. Dato che gran parte del mercurio e della CO2 derivano dalle stesse attività umane, il team è stato in grado di ricavare un indice relativo alle due sostanze e usarlo per calcolare le quantità e la distribuzione di mercurio nei bacini oceanici del mondo intero ricollegabile alle attività umane.
L’analisi dei risultati si è mostrata in accordo con i modelli usati in precedenza. L’oceano contiene da 60mila a 80mila tonnellate di mercurio da inquinamento. Inoltre si è scoperto che nelle acque oceaniche profonde meno di circa 100 metri le concentrazioni di mercurio sono triplicate a partire dalla Rivoluzione Industriale e che l’oceano nel suo complesso mostra un aumento di circa il 10 per cento rispetto ai livelli di mercurio pre-industriali.
“Seguendo la tendenza del recente passato, per i prossimi 50 anni si potrebbe benissimo aggiungere la stessa quantità che abbiamo rilevato nei precedenti 150 anni”, afferma Lamborg. “Il problema è che non sappiamo quali siano le ricadute sui pesci e gli organismi marini in genere. I pesci potrebbero avere un contenuto di mercurio tre volte maggiore di 150 anni fa ma, per quanto ne sappiamo, potrebbe essere ancora più rilevante. La nota positiva è che ora abbiamo qualche numero su cui lavorare”.