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Modello per accumuli di plastica in mare ridisegna i confini oceanici

Great Pacific Garbage Patch è una zona di interesse ambientale cosparsa di frammenti di plastica galleggianti in un’area dove divengono più numerosi dello stesso plancton e costituiscono un serio rischio per i pesci, le tartarughe e gli uccelli che si nutrono di quei detriti

Scritto da Leonardo Debbia il 05.09.2014

Great Pacific Garbage Patch. Così viene chiamata una zona di interesse ambientale, situata tra le Hawaii e la California, dove la superficie dell’oceano è cosparsa di frammenti di plastica galleggianti in un’area dove divengono più numerosi dello stesso plancton e costituiscono un serio rischio per i pesci, le tartarughe e gli uccelli che si nutrono di quei detriti.

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Le sette zone in cui sono stati suddivisi gli oceani terrestri (crediti: Gary Froyland, Robin M. Stuart,  Eric van Sebille / UNSW)

Gli scienziati ritengono che questa vasta chiazza di spazzatura o ‘isola di plastica’, come è stata recentemente definita, è solo una delle cinque individuate a livello globale, ciascuna collocata al centro di una grande circolazione di correnti oceaniche che ruotano tutto attorno, i cosiddetti ‘vortici’, che risucchiano, intrappolandoli, tutti i detriti galleggianti.

Tre ricercatori della University of New South Wales (UNSW) di Sidney, in Australia, hanno messo a punto un nuovo modello matematico che potrebbe aiutare a determinare qual è la causa di questi ampi accumuli di spazzatura, un compito assai arduo per un sistema così complesso e vasto come l’oceano.

Questo modello viene proposto in un articolo pubblicato sulla rivista Chaos.

“In alcuni casi, i rifiuti che vanno a confluire nell’enorme chiazza di spazzatura vengono anche da Paesi molto lontani”, dichiara Gary Froyland, matematico dell’UNSW. “Ad esempio, i detriti che confluiscono nel Sud Atlantico potrebbero provenire dal Madagascar e dal Mozambico, anche se le coste dei due Paesi sono bagnate dall’Oceano Indiano”.

Ma perché e in che modo questi rifiuti vanno ad accumularsi tanto lontano?

Il rapido movimento delle correnti oceaniche è dato dai venti, dalle differenze di temperatura e di salinità dell’acqua e perfino dalla forza di rotazione della Terra. Le correnti servono a miscelare le acque tra differenti zone oceaniche, ma anche a tenerle separate, come fa il getto d’aria all’ingresso di un locale dotato di un condizionatore per tenere separate l’aria fresca dell’interno dall’aria calda esterna.

Gary Froyland, Eric van Sibille e Robin Stuart, tutti studiosi appartenenti all’UNSW, hanno suddiviso l’intero oceano in sette regioni le cui acque, per molteplici ragioni, si mescolano molto poco. Il modello è stato costruito con metodi matematici secondo quella che, nel settore, è chiamata ‘teoria ergodica’, definendo quindi nuovi confini oceanici.

Secondo il nuovo modello, aree dell’Oceano Pacifico e dell’Oceano Indiano sono, in realtà, strettamente legate con il Sud Atlantico, mentre la restante porzione di Oceano Indiano fa parte invece del Sud Pacifico.

“Il risultato del nostro lavoro, in altri termini, è una nuova definizione dei confini dei bacini oceanici a seconda di come si muove l’acqua”, afferma van Sebille. La geografia dei nuovi bacini potrebbe essere utilizzata nell’ecologia degli oceani, in aggiunta ai percorsi che vengono seguiti dai detriti.

I ricercatori affermano che questa tecnica di modellazione potrebbe trovare applicazione anche su scala più piccola, determinando, per esempio, come si muovono le acque canadesi e americane che vanno a mescolarsi nei Grandi Laghi oppure come una fuoriuscita di petrolio potrebbe diffondersi nel Golfo del Messico.

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