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SETI e la cospirazione delle forze fondamentali

Scritto da Annalisa Arci il 18.11.2013

Alfred R. Wallace trascorse gli ultimi anni della sua vita a dimostrare tesi da alcuni ritenute eccentriche, tra cui questa: anche se l’intelligenza che pervade il cosmo deve aver progettato l’universo, la Terra ospita l’unica specie dotata di consapevolezza. L’uomo deve essere solo nel cosmo. 

Wallace non poteva sopportare l’esistenza di extraterresti intelligenti poiché ciò “implicherebbe che l’uomo è un animale e nulla più, che non ha alcuna importanza per l’universo, che non ha avuto bisogno di grandi preparativi per il suo avvento”, (Stephen J. Gould, Il sorriso del fenicottero, Feltrinelli, 1985, p.323). 

Il ragionamento di Wallace non è tra i più felici, come fa notare lo stesso Gould. Benché il dibattito ormai interminabile sulla vita extraterrestre sia troppo spesso concentrato sul calcolo delle probabilità – ad esempio, qual è il numero dei pianeti “adatti”? qual è la composizione geofisica “adatta”? – esiste un progetto di ricerca serio, che tenta di intercettare i segnali dell’intelligenza nello spazio. 

Il messaggio di Arecibo è stato trasmesso nello spazio dal Radiotelescopio di Arecibo, in Porto Rico, il 16 novembre 1974. È stato indirizzato verso l’ammasso globulare di Ercole M13, a 25 000 anni luce di distanza. (Crediti: Wikipedia.org).

Negli anni Cinquanta, un gruppo di scienziati finalmente comprende che i radiotelescopi possono essere usati per comunicare a distanze interstellari e che, se nei remoti antri dell’universo ci fosse stato qualcuno, sarebbe stato possibile scambiare messaggi. Nel 1959 Nature pubblica un articolo firmato da Giuseppe Cocconi e Philip Morrison, due fisici della Cornell University, intitolato Searching for Interstellar Communications; la sfida viene colta l’anno seguente da Frank Drake, un giovane astronomo che decide di usare il telescopio del West Virginia per cercare segnali radio di provenienza aliena. SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) dal 1960 scandaglia lo spazio nella speranza di intercettare un segnale, uno qualsiasi. Finora però ogni sforzo si è tradotto in uno strano e un po’ inquietante silenzio.  E questo fatto è per alcuni aspetti sorprendente: soprattutto negli ultimi anni, infatti, grazie a potenti telescopi come Kepler abbiamo scoperto migliaia di pianeti extrasolari e alcuni persino nella zona abitabile delle loro stelle. 

Perché questo strano silenzio? Perché, come diceva Enrico Fermi, se esistono civiltà extraterrestri non c’è già stato un contatto? Significa che dobbiamo arrenderci all’idea di Wallace, che siamo davvero soli nell’universo, e che non esistono altre forme di vita? Da un lato ci sono i sostenitori convinti del principio antropico, secondo cui è la nostra stessa esistenza a spiegare certe proprietà dell’universo, come se la vita intelligente fosse nel DNA del nostro universo. Dall’altro c’è chi come Lee Smolin ci ricorda la non falsificabilità intrinseca del principio. Dato che riusciamo a malapena ad osservare parte del nostro universo, non siamo in grado di apprezzarne la validità statistica, visto che non riusciamo a provare l’esistenza di una molteplicità di universi in cui si realizzano le combinazioni delle costanti fondamentali. 

Se siamo soli nell’universo è a causa della cospirazione delle interazioni fondamentali. Ragionando tra me e me, durante qualche notte insonne, a volte mi sono detta che ha ragione Wallace. Esempio. La forza nucleare forte, che tiene insieme gli atomi, non consente il legame di due protoni o nuclei di idrogeno. Perché? Non è abbastanza potente. Ma riesce a tenere insieme un protone e un neutrone per formare un deutone, il nucleo dell’idrogeno pesante che gioca un ruolo essenziale nella fusione nucleare che trasforma l’idrogeno in elio – il processo interno al Sole, per intenderci. Ma cosa accadrebbe se la forza nucleare forte fosse solo un po’ più potente? Se legasse insieme due protoni il processo di trasformazione dell’idrogeno in elio sarebbe più veloce. Di fatto, tutto l’idrogeno dell’universo sarebbe diventato elio poco dopo il Big Bang. Ma senza l’idrogeno libero non ci sarebbe la possibilità di creare alcun legame con l’ossigeno per formare l’acqua e, di conseguenza, nessuna possibilità per la vita così come la conosciamo. 

Alla fine, però, mi sono convinta che Wallace ha torto. Dal punto di vista fisico, l’argomento tratto dalle interazioni fondamentali è una buona descrizione del range di variabilità entro cui si situa la vita sulla Terra, ma non è una spiegazione sulla presenza o assenza dell’intelligenza (o della coscienza) nell’universo. Se la forza nucleare forte fosse più potente noi non avremmo questa conformazione fisica, questo è certo, ma questo non implica, sul piano logico, l’impossibilità di una forma di intelligenza evolutasi in condizioni diverse. Possiamo certamente chiederci qual è l’ampiezza epistemologica da dare al principio antropico – minima, secondo me – tuttavia, per decidere se stare dalla parte di Wallace oppure no, questo non è sufficiente.

In ambito biologico ho trovato conferme a qualche mia modesta intuizione nel genio di Stephen J. Gould. Certo, l’intelligenza è cucita addosso ai nostri corpi, ma la questione della vita extraterrestre è spesso trattata con leggerezza. Da un punto di vista generale dobbiamo chiederci se la vita intelligente potrebbe avere qualunque conformazione fisica. Sfere di energia pulsante, pellicole di densità variabile, gocce luminescenti, etc.. Ma da un punto di vista più specifico, che interessa l’evoluzione, dobbiamo chiederci se una sequenza evolutiva è ripetibile nei suoi dettagli. Se riavvolgessimo il nastro dell’evoluzione sulla Terra, la vita intelligente avrebbe ancora questa conformazione? E in altri mondi? 

“Quando ci serviamo della ‘teoria evoluzionistica’ per negare categoricamente la possibilità di un’intelligenza extraterrestre, commettiamo l’errore classico di sostituire alle classi (la probabilità che l’evoluzione in altri mondi possa produrre una creatura nella classe generale degli esseri intelligenti) ciò che è specifico (la ripetibilità individuale degli umanoidi). Io posso presentare valide ragioni, che traggo dalla ‘teoria evoluzionistica’, contro la ripetizione in altri mondi di qualunque cosa che assomigli ad un corpo umano; ma non posso estendere queste ragioni alla proposizione generale che l’intelligenza, in una qualche forma, possa pervadere l’universo”, (Stephen J. Gould, Il sorriso del fenicottero, Feltrinelli, 1985, p.32). 

Potreste obiettare che una palla rotola necessariamente verso il basso, se posta su un piano inclinato; su questo non c’è dubbio, vi risponderei, ma il determinismo classico vale, come strumento esplicativo, solo per oggetti fisici macroscopici e non per oggetti storici complessi come l’intelligenza umana. Ogni specie è un concatenamento fortuito di improbabilità, il risultato di un percorso tortuoso in cui numerosi adattamenti si sono affermati anche per ragioni del tutto fortuite. E l’intelligenza, pur essendo un fenomeno complesso e storicamente condizionato, potrebbe comunque, in un altro mondo e in altre condizioni fisiche, evolversi con discreta facilità. E dobbiamo essere grati a un visionario come Frank Drake se ha avuto inizio l’avventura di SETI, un’avventura che non dovremmo lasciar morire. 

Bibliografia:

Barrow John D., Tipler Frank J., Il principio antropico, Adelphi, 2002.                  

Davies Paul, Uno strano silenzio, Codice Edizioni, 2012.  

Gould Stephen J., Il sorriso del fenicottero, Feltrinelli, 1985.

Smolin Lee, La vita del cosmo, Einaudi, 1998.                                                                                                          

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