Nel Bhaghavad Gita, poema sacro indiano, c’è un guerriero, Arjuna, che alla vigilia della battaglia non vuole più combattere. Ma deve farlo e lo convincerà il dio Krsna, manifestandosi a lui. Alla fine di questa esperienza, di questa epifania, l’eroe dice: “Tu soltanto conosci Te stesso, mediante Te stesso”.
Che non è il Dio aristotelico, il motore immobile a se stesso pensante. Un dio chiuso in se stesso, solo razionale.
La divinità cui si rivolge Arjuna è in tutte le cose senza esserne nessuna e conosce se stesso.
Conosce, sa, vede: il verbo in sanscrito (vittha) ha la stessa radice di video, dei verbi di vedere e dunque conoscere greci e latini. La radice VID da cui deriva anche il nome stesso della divinità: Dio.
Tu soltanto vedi cioè conosci te stesso mediante te stesso.
E qui nella nostra esistenza, nella nostra misura, nel nostro paragonare (misurare) nel nostro confrontare (misurare), qui ciò che conosce se stesso mediante se stesso è il cervello.
E probabilmente, per quel che ora sappiamo, ora, per quel che sappiamo, solo il cervello dell’Homo sapiens conosce se stesso mediante se stesso.
Ma dunque si può arrivare a pensare che il nostro cervello sia Dio?
Domanda che viene quasi legittimata da quel che scrive Teresa d’Avila, la mistica, che ci conduce dov’è Dio, nel grande castello che è la nostra anima, la nostra coscienza, la nostra mente. E questo dicono anche i mistici indiani, invano si cerca Dio nel ruscello, nella montagna, nel fiore: Dio è nel Sé.
Che il nostro cervello sia Dio potrebbe essere dubbio legittimo o ubris, tracotanza, certo può essere più accettabile che sia il nostro cervello ciò che conosce se stesso mediante se stesso.
Ma c’è un limite, un limite forte: è pur sempre un cervello umano quello che indaga e fa domande e conosce un altro cervello solo umano.
Che posso sapere io delle domande di un lombrico? Dei dubbi d’uno stelo d’erba? Fa sorridere. Ma chi si sente di escludere del tutto la possibilità che il lombrico o lo stelo abbiano dubbi e domande?
Sempre che abbia senso parlare di dubbio per uno stelo, o di domanda per un lombrico..
Viene in mente, non certo a tutti, ma forse a qualcuno, il teorema di incompletezza di Godel, un uomo del Novecento, il più grande logico di tutti i tempi insieme ad Aristotele. Godel, riferendosi a un sistema formale in matematica, dice che se il sistema è coerente non lo si può conoscere dall’interno.
Non lo si può conoscere dall’interno.
Ma allora, allora il nostro cervello è un sistema che il cervello non può conoscere.
Pare di essere in un incubo, in un vicolo cieco, sempre più cieco.
Visto così il cervello diventa il campo di battaglia del guerriero Arjuna, costretto a fare la guerra. Diventa una stanza claustrofobica da cui nessuno può uscire.
Il cervello è una calotta trasparente, di vetro. Alcuni pensieri, come mosche dietro le finestre chiuse in estate, impazziscono perché vogliono uscire, bucare questa calotta. Perché ci sono pensieri, se possiamo definirli così, che scaturiscono dal nostro cervello cercando di uscire.
Forse derivano come era per Einstein da un cervello ipertrofico in alcune parti.
Forse no.
Riusciranno questi pensieri impazziti a trovare un varco?
Guardo gli occhi dei miei gatti e mi ci riconosco, però non li conosco. Mi riconosco in loro come creatura fragile, ma non li conosco.
Tu non puoi conoscere te stesso solo mediante te stesso. Sembra che debba finire così.
Che mal di testa. È il caso di dirlo. Come se ne esce? Non dalla testa, ma da questo ragionamento campato un po’ per aria? A che serve studiare, sapere tante cose? Questo cercare di spingere il limite sempre un po’ più in là, a che cosa è utile, a chi giova?
Ovviamente può essere autoreferenziale, una sorta di bombardamento endorfinico per cui io scopro qualcosa e sto bene, come se avessi bevuto un bicchiere di vino, o avessi corso nel verde di un bosco, o avessi avuto una illuminazione poetica, un’ubriacatura amorosa, un’intuizione matematica. Perché io a conoscere mi sento meglio.
Ma non basta.
La potenza del cervello può portare a dover scegliere fra tre strade, sempre il trivio, come per Edipo, un uomo alquanto cerebrale.
Qualcuno decide che non vuole conoscere, forse la maggioranza delle persone non vuole andare ai suoi limiti, la via di mezzo è la conservazione (entra in gioco qui la biologia).
Qualcuno vuole usare questi strumenti, queste conoscenze per dominare, sottomettere, arricchirsi incrudelire attingere l’illusione dell’immortalità.
Invece c’è anche chi spera di usare queste facoltà e questo sapere per arrivare a quello che nell’Orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola è la pace.
Non semplicemente la pace interiore che possiamo intuire essere lo scopo della battaglia di Arjuna nel Baghavad Gita, ma proprio la pace sociale, politica, la pace del cessare delle guerre.
La pace che viene dalla capacità umana del pensare, del comparare, del dialogare.
La centralità della mente per costruire la pace. Una vita concreta in pace.
Giorno dopo giorno in pace.
Per essere chiari, una vita che non ti bombardano, che non ti sgozzano, che non ti violentano, che non ti affamano, che non devi scappare, che non vieni crocifisso per la tua religione, che non diventi un profugo.
La pace agognata da ogni essere vivente.