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L’importanza del nome giusto

Scritto da Maria Rosa Pantè il 13.06.2016

Ricordate come è brutto quando qualcuno sbaglia il vostro nome e vi chiama, per un lapsus o una dimenticanza, con il nome sbagliato? Non è una bella sensazione, ci strappa per un momento un po’ del nostro essere, della nostra personalità, della nostra identità: Maria, Paola, Giovanni, Marco, Anna, Alan…

Alan non Aylan.

Vi prego chiamatelo Alan e non Aylan come a volte scrivono i giornalisti. Ci tengo

Il padre chiede che lo si chiami col nome giusto, invece noi, tutto il mondo ha pianto e si è commossa su un bambino che era Alan e non Aylan.

Chissà chi se lo ricorda, Alan è il bambino che il mare ha posato sulla sabbia, il bamnino morto, con le scarpine, e la maglietta rossa.

Un bambino profugo, uno dei tanti, per un momento però il suo tranquillo morire (almeno così pareva poiché sembrava dormire, e invece era morto) ha commosso il mondo e quasi tutti si sono fermati, pensando che i profughi, gli annegati, i migranti sono, guarda un po’, esseri umani.

Hanno cioè storie, volti, famiglie, nomi…

Ma abbiamo sbagliato il nome e anche il nostro pianto era alla fin fine falso.

Non sappiamo dare il nome ai morti, se lo diamo lo sbagliamo, così perché siamo superficiali e l’orrore, il dolore, la guerra ci danno fastidio.

Non ci va, noi del mondo più ricco (ricco?), noi del mondo in pace, non ci va di vedere la sofferenza troppo a lungo. Ci rovina la digestione quel peso proprio lì sullo stomaco e forse un po’ sulla coscienza.

Così abbiamo pianto un altro bambino, o almeno un altro nome.

Così ora non piangiamo più, perché non diamo più nemmeno i nomi. Contiamo i morti, coi numeri si sa è più facile.

Di questo sonno, di questa anestesia letale per tutti, ha parlato nella città in cui lavoro, Varallo, il portavoce nazionale dell’UNICEF, Andrea Iacomini, che ha scritto un libro in cui racconta di sé e di cosa ha trasformato la sua vita: l’incontro col dolore e la guerra, l’incontro coi bambini, prime vittime delle guerre. Effetti collaterali.

Un gionalista portavoce che si lamenta proprio del fatto che di queste cose non si parli. A me è venuto in mente che coloro che sopravvissero ai lager per molto tempo tacquero perché nessuno li ascoltava volentieri, perché nessuno quasi credeva loro. Le parole dicono e fanno reale quello che noi vogliamo rimuovere, pensare non sia esistito, pensare che sia al limite lontano e che mai mai possa accadere proprio a noi.

Invece bisogna sapere e dare un nome a tutti i bambini, sentire la terribile evidenza del loro essere reali e in carne e ossa e  sentire il peso della loro morte.

Sentire questo è pensare che così non si può vivere, che ci vuole indignazione e giustizia, un atto di giustizia: soccorrere chi fugge. Non c’è altra via e dare loro un nome, per poterli chiamare, ma da vivi.

A questo link l’intervista al padre di Alan.

http://www.repubblica.it/esteri/2016/05/30/news/l_intervista_abullah_kurdi_la_foto_di_mio_figlio_sulla_spiaggia_di_bodrum_e_un_simbolo_eppure_niente_e_cambiato_per_c-140891221/

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