Cos’è il tempo? È una sostanza, un’entità primitiva e irriducibile? Oppure è un’entità secondaria che deriva causalmente da qualche altra relazione? Da dove viene? È il Big bang l’origine, il motore del tempo? Perché scorre? Scorre da sé oppure ha bisogno di noi, enti biologici coscienti, per scorrere? Questo motore è di natura fisica oppure è illusorio, un costrutto delle nostre menti?
Sono solo alcune delle domande che si incontrano quando si cerca di affrontare il tema del tempo. Sfogliando il numero di novembre del New Scientist ho avuto la conferma che le risposte tardano ad arrivare. Per parlarvi compiutamente di questi argomenti dovrei scrivere un libro. Mi limito qui ad alcuni aspetti fondamentali di una avvincente storia che si dipana al confine tra filosofia e fisica.
Il tempo prima della gravità quantistica. Per secoli la filosofia ha tentato di ingabbiare il concetto di tempo cercando di conciliare due istanze a prima vista contraddittorie: l’esperienza soggettiva della sua durata e la tesi oggettiva della sua esistenza ed eternità. Poi un giorno viene pubblicato un articolo e tutto cambia. Uno tizio di nome John Ellis McTaggart dice che il tempo non è reale (The unreality of Time, “Mind”, 17, 1908). Scrive un articolo in cui dimostra che per parlare del concetto di tempo è necessario distinguere tra la A-serie, l’insieme degli eventi che corrono dal passato, al presente, al futuro, e la B-serie, la relazione che esprime l’esperienza dei rapporti di precedenza e successione tra gli eventi (“prima di” e “dopo di”).
L’impatto è stato così dirompente che, ancora oggi, tutta la discussione filosofica sul tempo si inserisce in questo quadro teorico. Ciò posto, l’aspetto più interessante è il “posizionamento” dei fisici nelle due serie. La teoria che rispecchia meglio la concezione comune del tempo, una forma di presentismo, è in accordo con la serie A (e con istanze newtoniane), mentre la serie B, non riconoscendo l’esistenza di un momento presente ontologicamente privilegiato rispetto agli altri, è tipicamente associata alla teoria della Relatività di Einstein (la relazione tra ciò che è qui e ciò che è là è identica alla distinzione tra presente, passato e futuro).
Il fatto che Einstein faccia parte dei teorici-B ha segnato pesantemente il dibattito successivo. Da un lato il lavoro del padre della Relatività e dei suoi colleghi ha aiutato la filosofia ad uscire da alcune ambiguità linguistiche. Spesso infatti nel linguaggio comune ci esprimiamo come se fraintendessimo sistematicamente i rapporti tra tempo e cambiamento: percepiamo il tempo attraverso il cambiamento, ma il tempo non è il cambiamento. Semmai possiamo asserire che il tempo non è senza cambiamento. Attraverso i suoi formalismi, la fisica distingue tra il corso del tempo, ossia il rinnovamento irreversibile dell’istante presente, e la freccia del tempo, che è l’evoluzione irreversibile dei fenomeni nel tempo. Da Newton in poi la rappresentazione del corso del tempo coincide con la causalità (e con il determinismo rigoroso di Leibniz).
Il Big bang come inizio del tempo. Misura della radiazione cosmica di fondo (il residuo dell’ionizzazione dell’universo) poco dopo il Big Bang. (Credit: WMAP/NASA).
Dall’altro è grazie ad Einstein che torna alla ribalta il problema del presente e della percezione del presente. È infatti impreciso sostenere che noi percepiamo il presente. Se fissiamo la Luna, la vediamo com’era un secondo e mezzo fa, il tempo necessario alla luce per arrivare dalla Luna alla Terra. Certo, è vero, in un secondo e mezzo la Luna non cambia sensibilmente; tuttavia sarebbe errato dire che la vediamo com’è adesso. Stessa cosa se volgiamo lo sguardo al Sole. Qui la luce impiega 8 minuti per giungere a noi, il che significa che la vediamo com’era otto minuti fa. Se poi ci spostiamo verso Alpha Centauri, la stella più vicina a noi, la forchetta temporale cresce: la vediamo com’era 4,2 anni fa. Accettare il carattere finito della velocità della luce implica accettare la nostra impossibilità di percepire il presente (per approfondire questo punto potete leggere il libro da cui ho tratto gli esempi: Mauro Dorato, Che cos’è il tempo? Einstein, Gödel e l’esperienza comune, Carocci, 2013).
Più radicalmente, Einstein viene a negare che il presente abbia una sua consistenza ontologica, una realtà in sé, vincolandolo rigidamente alla posizione in cui si trova l’osservatore di riferimento. Come dire: ogni soggetto ha il suo tempo proprio. Alla fine della sua vita Einstein era tormentato dallo “statuto dell’ora o dell’adesso” nella Relatività. Nella sua Autobiografia intellettuale Rudolf Carnap riporta a questo proposito un aneddoto interessante:
“una volta Einstein mi disse di essere seriamente preoccupato dal problema dell’ora. Spiegò che l’esperienza dell’ora [o adesso] ha un significato particolare per l’uomo, essenzialmente diverso dal passato e dal futuro, ma che questa differenza non ricorre e non può ricorrere nella fisica. Il fatto che tale esperienza non potesse essere colta dalla scienza gli sembrava un elemento di penosa, ma inevitabile rassegnazione. Osservai che tutto ciò che è oggettivamente accaduto dovrebbe poter essere descritto dalla scienza: da un lato, le sequenze temporali degli eventi possono essere descritte dalla fisica; dall’altro, le particolarità delle esperienze umane in rapporto al tempo, compreso il diverso atteggiamento verso passato, presente e futuro, possono essere descritte e (in linea di principio) spiegate dalla psicologia. Tuttavia, Einstein pensava che queste descrizioni scientifiche non possono soddisfare le nostre necessità umane; che c’è qualcosa di essenziale a proposito dell’ora che è interamente fuori dalla portata della scienza”. (Rudolf Carnap, Tolleranza e logica: autobiografia intellettuale, il Saggiatore, 1978, p. 83).
La gravità quantistica ha il merito di rilanciare il dibattito. Con l’avvento della fisica quantistica la questione si fa ancora più contorta. Per la fisica delle particelle lo spazio-tempo è statico, piatto, rigido. Per la Relatività Generale è dinamico, elastico e curvo. Come metterle d’accordo? Abhay Ashtekar, Carlo Rovelli e Lee Smolin, i fondatori della Loop Quantum Gravity sostengono che una teoria fisica deve poter essere formulata senza alcun riferimento ad uno sfondo preesistente, a un quadro spaziotemporale a priori. Ritengono il problema dell’unificazione tra Relatività e fisica quantistica sia questo: il tempo accoglie gli eventi o ne scaturisce?
I primi tentativi di fondere queste teorie diedero risultati sconfortanti: “sconfortante” per un fisico di solito significa che, durante i suoi complicati calcoli, si trova davanti ad equazioni piene di valori infiniti, il che rende impossibile ottenere dei risultati che abbiano un senso (ho ovviamente semplificato). Negli anni Sessanta del Novecento le speranze si riaccendono. John Wheeler e Bryce DeWitt sono riusciti a combinare con successo idee fino ad allora incompatibili, ottenendo quella che oggi viene chiamata l’Equazione di Wheeler-DeWitt, che è riuscita nella quantizzazione della Relatività Generale. Con questa magica equazione i valori infiniti si annullano, ma non ci volle molto tempo per capire che, se da una parte l’equazione risolveva un problema, dall’altra però ne introduceva un altro. Un problema spaventoso: sembrava, infatti, che il tempo non giocasse alcun ruolo nell’equazione. Più precisamente, secondo l’equazione di Wheeler-DeWitt non solo nell’universo non succede mai nulla, ma sarebbe impossibile sostenere che si sta espandendo, tutte cose che le osservazioni invece testimoniano con chiarezza. Questo dilemma è passato alla storia come il problema del tempo. Per accendere nuovamente le speranze degli scienziati dobbiamo attendere il 1983, quando due fisici teorici, Don Page e William Wooters, trovano una nuova soluzione basata sull’entanglement.
La correlazione quantistica può essere usata per misurare il tempo. L’idea è questa: il modo in cui si evolve una coppia di particelle correlate è identico ad un orologio che, dunque, può essere usato per misurare il cambiamento. Ma i risultati dipendono da come vengono fatte le osservazioni. Un modo per farle è comparare il cambiamento nelle particelle entangled con un orologio esterno, indipendente dell’universo. Come se ci fosse un osservatore esterno all’universo che lo osserva con un orologio. Page e Wooters hanno mostrato che le particelle risulterebbero interamente prive di cambiamento: il tempo in questo scenario non esisterebbe. Bizzarro!
Diagramma dell’esperimento nelle sue varie componenti. (Credit: http://arxiv.org/pdf/1310.4691v1.pdf).
L’universo giocattolo. Il New Scientist riporta che Ekaterina Moreva, dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRIM) di Torino ha eseguito il primo test sperimentale per vagliare le idee di Page e Wooters, confermando che il tempo è un fenomeno emergente per gli osservatori interni ma non esiste per quelli esterni (!). L’esperimento comporta la creazione di un “universo giocattolo” che consiste in una coppia di fotoni correlati in entanglement, ed un osservatore che può misurare il loro stato in uno di due modi. Nel primo, l’osservatore misura l’evoluzione del sistema insieme ad esso (sarebbe l’equivalente dello stato entangled). Nel secondo, un osservatore completamente esterno misura l’evoluzione usando un orologio.
Fuor di metafora, si prende una coppia di fotoni. Ognuno ha una polarizzazione che può essere cambiata passandoli attraverso degli specchi birifrangenti. Nel primo set-up, l’osservatore misura la polarizzazione di un fotone correlandosi ad esso (qui confesso di non aver capito come avviene, in pratica). L’osservatore compara poi la misura ottenuta con la polarizzazione del secondo fotone. La differenza sarebbe una misura del tempo. Nel secondo set-up i fotoni passano nuovamente attraverso specchi birifrangenti che ne cambiano le polarizzazioni. Tuttavia, in questo caso, l’osservatore misura soltanto le proprietà globali di entrambi i fotoni, comparandoli con un orologio indipendente. Di conseguenza, l’osservatore – secondo quanto si legge nei paper indicati alla fine di questo paragrafo – non può rilevare una differenza tra i fotoni senza diventare correlato ad uno di essi. E se non c’è una differenza, il sistema è statico. In altre parole, il tempo non emerge. (http://arxiv.org/abs/1310.4691; http://arxiv.org/pdf/1310.4691v1.pdf).
Molte sono le obiezioni che mi vengono in mente. La prima concerne il significato di emergente. Non è un termine neutro sul piano filosofico e scientifico; di conseguenza, l’assenza di una definizione tecnica non depone certo a favore delle tesi sostenute. La seconda ha a che fare con il concetto di osservatore esterno che, a mio parere, sul piano cosmologico non ha senso. Per quanto riguarda il tempo credo non sia proficuo muoversi nella direzione di Page e Wooters. Piuttosto guarderei con interesse agli sviluppi della Loop Quantum Gravity e considererei prioritarie le questioni già poste: dato che è sensato percorrere la direzione di Einstein e dei teorici-B, come la mettiamo con lo statuto ontologico del presente e dell’ora? Qui la fisica non basta perché interviene il concetto di coscienza. Infine: il tempo accoglie gli eventi o ne scaturisce?