Italian biomedical research under fire. Così si intitola il duro editoriale uscito il 22 novembre su Nature Neuroscience. Una denuncia dello stato di crisi cui andrà incontro la ricerca italiana in seguito all’approvazione della recente proposta di legge sulla sperimentazione animale.
Le repliche non sono mancate: mercoledì scorso la senatrice Elena Cattaneo scriveva su Repubblica che il nostro paese sta morendo: “con queste leggi, il Paese non solo umilia la scienza e la cultura, ma umilia i nostri figli, suggerendo loro che il loro impegno e i loro studi a questo Paese non servono. […] Gli stranieri che ci offrono opportunità lontano da qui si chiedono perché continuiamo a restare. E si prendono i nostri giovani. […] Signor Presidente del Consiglio, Signor Presidente della Repubblica, non so dirvi per quanto resisteremo. Bisogna far qualcosa. Il Paese muore”.
Proposte di legge a dir poco draconiane. Come si ricorda nell’articolo, un primo schiaffo alla ricerca è avvenuto nel 2012, con l’annuncio del taglio dei finanziamenti ad alcuni istituti di ricerca nazionali: del 3,8% nel 2012 e di un ulteriore 10% nel 2013-2014. La situazione non può che peggiorare. Nel mese di agosto di quest’anno il Parlamento ha votato una legge che, se attuata, bloccherà di fatto tutta la sperimentazione nel settore biomedico. La storia di questa legislazione inizia con una direttiva dell’Unione europea (Direttiva 2010/63/UE) adottata nel settembre del 2010 e che mirava a istituire norme minime nell’utilizzo di animali per progetti scientifici o didattici. Anche se la direttiva ha imposto agli Stati membri di presentare le loro disposizioni nazionali entro il 10 gennaio 2013, l’Italia è uno dei sei paesi europei che ad oggi non è riuscito a soddisfare i requisiti di presentazione indicati.
Ma l’aspetto scandaloso della questione è il seguente: il disegno di legge va ben oltre le norme descritte nella direttiva UE. Questa normativa, se sarà approvata dal Senato, vieterà l’allevamento o l’uso di cani, gatti e primati non umani per gli esperimenti, con l’eccezione di ricerche traslazionali – ossia con obiettivi chiaramente definiti come attinenti alla salute umana. Non solo. Anestesia o analgesici dovranno essere applicati durante qualsiasi procedura in cui l’animale potrebbe provare qualche tipo di dolore, tranne nei casi in cui siano esse stesse oggetto di studio. Ma, più preoccupante di tutte, è la direttiva che vieta l’uso di tutti gli animali per xenotrapianti, ossia trapianti di cellule viventi, tessuti e organi da una specie all’altra, e nei programmi di ricerca finalizzati allo studio dell’abuso di droghe, mettendo fine alle ricerche sulle cause e sui trattamenti delle tossicodipendenze e alla maggior parte della ricerca per trovare terapie contro il cancro.
Non è difficile vedere come queste restrizioni, una volta attuate, avranno conseguenze catastrofiche per l’intera comunità dei ricercatori del settore biomedico. Come se non bastasse, infatti, la proposta di legge contiene una disposizione alquanto vaga in cui si dice che la generazione di animali geneticamente modificati come i roditori dovrà tener conto dei “potenziali rischi per la salute umana, il benessere animale e l’ambiente ” (Articolo 13, Legge 6 agosto 2013, n. 96). Giocare sulla vaghezza e ambiguità del dettato giuridico per proporre interpretazioni restrittive sarà fin troppo semplice. Se queste proposte diventeranno legge al Senato, non solo si avrà un massiccio esodo dei ricercatori italiani, ma la competitività del paese verrà ancora una volta umiliata. Spero che i senatori si vadano a leggere la direttiva UE e tengano a mente che è proprio la normativa europea a stabilire che, qualora gli stati membri decidano di optare per misure più restrittive di quelle ivi introdotte, tali misure, per non essere abrogate, dovevano già essere in vigore nel 2010. In pratica, la soglia massima di “divieto” è rappresentata proprio dalla direttiva europea. Oltre non ci si può spingere.
Non c’è sinergia tra la comunità scientifica e la politica, come non c’è sinergia tra la società e la comunità scientifica. Mi è venuto in mente il Minicorso di scienza per politici (e non solo) di Anna Meldolesi che leggevo sul Corriere della Sera, in cui si denuncia l’inesistenza in Italia di una figura professionale, quella del consulente scientifico, che è invece affermata da anni nel mondo anglosassone, ad esempio. E questo rilievo non è che la punta di un ormai smisurato iceberg.
Evidentemente, da un lato ai politici mancano le nozioni di base per prendere decisioni corrette su temi scientifici di vitale importanza. Dall’altro l’opinione pubblica è troppo spesso in balìa di pregiudizi e diffidenze non giustificate, forse perché non conosce gli strumenti con cui la ricerca si svolge. Per sciogliere l’iceberg dobbiamo capire che cultura, (finanziamenti alla) ricerca e progresso tecnologico/industriale sono la stessa cosa. Se l’Italia non comincerà a muoversi in queste direzioni, abbattendo innanzitutto i costi della macchina statale, morirà molto presto.
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