Gaianews

Piccola storia quotidiana

Scritto da Maria Rosa Pantè il 19.09.2011

Con questo titolo un mio amico mi ha inviato la storia che segue e che io riporto così come l’ho ricevuta, senza commenti, giacché la storia parla da sola. Direi che parla di due vicende, di due piccole storie quotidiane, i protagonisti della storia sono due, gli altri stanno sullo sfondo.

I protagonisti sono un cane senza nome e il mio amico, che di professione fa il veterinario, in particolare è specializzato in chirurgia. Ama anche scrivere e da come racconta la storia è del tutto evidente.

Oltre alla testimonianza diretta, sullo stesso tema, con la stessa pietas c’è il libro “Vergogna” di Coetze. Chi apprezzerà il racconto vero del mio amico veterinario provi al leggere il romanzo.

Così mi ha scritto Ambrogio Ercoli, veterinario, il fatto è di questa settimana.

“Non ho un nome e purtroppo non ce lo avrò mai.”

Guardo quel cane disgraziato sul tavolo dell’ambulatorio e penso che non so come si chiama. Per me rimarrà senza nome ancora per i pochi minuti che lo separano dalla morte. Poi resterà solo una sensazione di disagio per qualche ora, o forse un giorno e poi me ne dimenticherò, spero per sempre. Non è tanto dovergli praticare l’eutanasia che mi mette a disagio. Nelle condizioni in cui versa è la cosa migliore, non esistono cure che possano allungargli la vita o alleviare le sue sofferenze. Per esperienza so che sarebbe un inutile procrastinare un evento impellente.

Quello che mi turba è la frazione della sua vita che mi è stata raccontata. Spero non sia tutta in quelle poche parole, spero mi sia stato fatto un sunto per giustificarmi lo stato attuale dell’animale che ho sotto gli occhi.

Lo guardo, è solo sul tavolo, l’anestetico comincia a fare effetto e non ha più la forza, voglia, di muoversi. È stato abbandonato al suo destino, nel vero senso della parola, lasciato lì con collare e guinzaglio ancora attaccati mentre cerca di seguire chi l’ha portato da me e ora esce chiudendo la porta che lo separa del resto del mondo per sempre. Nulla di quella vita serviva ancora ai suoi (già ex) proprietari.

Quando si è chiusa la porta mi ha guardato come a chiedermi: e adesso che cosa facciamo? Ma io avevo già scosso la testa prima quando mi era stato chiesto se c’era qualche possibilità di cura. Diciassette anni sono molti per un cane e a guardarlo non aveva avuto sconti dal passare del tempo. Ma tutto sommato non se li portava poi così male se non fosse stato per qualche gruppo di cellule che, impazzito, aveva deciso di mangiarselo. Guardavo quei tumori che gli gonfiavano la pelle ed in alcuni punti erano esplosi infettandosi. Erano grossi come il cane stesso. Impossibili da togliere. Questi non saltano fuori dall’oggi al domani, ci mettono anni a diventare così, ho detto alla signora.

“Ah, sa, non ce lo avevo io. Questo cane viveva con mio figlio e la compagna. Quando si sono lasciati lei ha chiesto di poterlo tenere per fare compagnia al suo lupo. Ieri il lupo è morto e la ragazza mi ha chiamato per dirmi di andare a riprendere questo cane perché non le serviva più. Ero in Romagna, ho lasciato tutto e sono venuta su a prenderlo. Quando ho visto in che stato era l’ho portato qui. Se però non c’è più niente da fare, gli faccia la puntura che devo tornare a casa.”

Nemmeno il tempo di pagare e avevo già in mano il guinzaglio e loro fuori dalla porta. Mi ha guardato, il cane, ma non era di buon umore. Forse il viaggio, forse il repentino doppio cambio di padrone delle ultime ventiquattro ore, ma ogni volta che mi muovevo ringhiava. Solo paura però, non c’era cattiveria o dolore. Quando ho iniettato il preanestetico non si è mosso, rassegnato a chissà quale nuova angheria.

Guardo quegli ultimi respiri e spero che la sua lunga vita sia stata più felice di queste ultime ore. Che il suo ruolo di cane “da compagnia” sia stato un ruolo alla pari, almeno con l’altro cane. Spero questo per te, cane senza nome. E per me.

© RIPRODUZIONE RISERVATA