Decido di seguire ancora il tema che ci accompagna da settimane: la scuola di Francoforte. Siamo oramai alla seconda generazione di studiosi, intellettuali che conoscono Adorno durante la loro vita e dal quale prendono spunti e suggerimenti. Questi filosofi che nelle prossime settimane ci apprestiamo a trattare sono perciò legati ai francofortesi solo per ciò che riguarda la loro formazione, ma approdano singolarmente a nuove isole di pensiero. Ci propongono, cioè, uno spaccato evidente della molteplicità del 900: secolo variegato e complesso di cui ancora siamo figlioletti adolescenti.
Oggi parleremo di Walter Benjamin. Egli nasce a Berlino nel 1892 da una famiglia di origine ebraica, si forma in Germania e nel 1919 si laurea in Filosofia con una dissertazione sul Concetto di critica d’arte nel Romanticismo tedesco. Una tesi già matura che evidenzia la caratura intellettuale del giovane Benjamin. Da lì a poco farà la conoscenza di due personalità fondamentali per la sua crescita filosofica: il primo è Bloch con il quale avrà sempre un rapporto difficile, caratterizzato da alti e bassi. Il secondo è Adorno. L’avvicinamento all’autore de La dialettica dell’illuminismo avviene in un periodo particolare per Benjamin: la crisi del suo primo matrimonio con Dora Kellner e l’avvicinamento a Asja Lacis, donna di origine russa legata al movimento marxista. Il sostentamento di Benjamin è legato solo al suo lavoro di traduttore e critico al Literarische Welt. Conosce Brecht e trasferitosi a Parigi, lavora moltissimo sui testi di Baudelaire.
Benjamin si presenta come uno degli autori meno sistematici del 900: le sue molteplici facce, che corrispondono ad altrettanti interessi filosofico-letterari, ben rappresentano l’influenza nietzschiana e quella adorniana sulla sua personalità. Benjamin sarà destinato ad essere poco compreso e apprezzato dai contemporanei, al contempo amato moltissimo dai successori. Per questa sua poliedricità è estremamente complesso fornire una sintesi completa del suo pensiero. Il punto su cui a noi interessa insistere è il suo rapporto con la scuola di Francoforte: con essa condivide la critica alla società capitalistica e la negazione di un assoluto su cui fondare le singole esistenze umane. La filosofia in tal senso non deve tanto promettere la felicità o l’acquietamento d’animo, ma il suo compito è più vicino a quello di svelare le verità nascoste sotto la spessa coltre della realtà. Il filosofo si deve quindi presentare come un investigatore che punta la sua ricerca verso il vero, anche andando incontro a scoperte catastrofiche.
Benjamin è conosciuto soprattutto per due testi Angelus Novus e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Questa seconda opera a noi interessa maggiormente. La visione dell’arte di Benjamin è estremamente materialista. L’arte è un prodotto degli uomini che trova come unico fruitore altri uomini. I tempi moderni danno la possibilità di fruire più rapidamente e da un maggior numero di persone, del prodotto artistico anche solo grazie appunto alla rapida riproducibilità tecnica delle opere d’arte. Un esempio pratico: pensiamo alla musica nell’ 800 e nel 900. Nell’800 la musica era fruibile da pochi, dai cultori dell’opera o della musica da camera. Nel 900 tutto questo viene ribaltato. Chiunque ha libero accesso a dischi, concerti, teatri. La singola opera d’arte viene riprodotta all’infinito. Questo secondo Benjamin causa il termine dell’unicità dell’opera e della sua sacralità. Quella che cade è l’Aura dell’opera d’arte. L’aura sarebbe quindi quell’alone ideale che rendeva sensibile al fruitore l’unicità irripetibile dell’atto creativo. In una società massificata questo rapporto-incontro diretto con l’opera d’arte è sempre più difficile e mediato. Il rischio è perdere appunto dell’aura sacrale che circonda l’opera d’arte, considerata unica ed irripetibile, quindi sacra. E’ come se nel 900 trionfasse sempre la copia, di qualcosa che è sempre uguale. La riproducibilità tecnica alla lunga si presenterà come un male, non migliorerà la cultura delle masse, le renderà ancora più sterili. Chi se ne renderà conto tenterà di ribellarsi, instaurando una dinamica di rovesciamento dei valori. La storia in questo senso non è considerata un percorso proteso verso un miglioramento progressivo, ma il racconto fatto dai vincitori che oblia realtà e verità dei vinti e dei deboli.
La vita di Benjamin termina tragicamente. A Parigi, Attendendo il visto per gli Stati Uniti, si toglie la vita privo di speranza, ingerendo una massiccia dose di morfina. L’Ironia della sorte volle che il visto arrivò l’esatto giorno successivo al suo suicidio.
Il film che vi consiglio questa settimana è The Tree of Life di Terrence Malick.