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Altro che salute! Le Terme romane diffusero malattie in tutto l’Impero

Scritto da Leonardo Debbia il 29.01.2016

“Salus per aquam”, sentenziava la celebre locuzione latina. La salute per mezzo dell’acqua. Ma siamo certi che fosse realmente così?

Gli antichi Romani sono noti per aver diffuso la cultura delle terme, stabilimenti balneari veri e propri, instaurando un’abitudine igienica che, circa 2000 anni fa, fu esportata in tutto l’Impero.

Sull’esempio dei Greci e, prima ancora, degli antiche Egizi, i Romani fecero propria l’abitudine al balneum, che divenne ben presto anche un sistema di socializzazione.

Le prime terme, inaugurate da Agrippa nel 25 a.C., che le rese pubbliche, sorsero in vicinanza di sorgenti, le cui acque avevano proprietà curative; ma in seguito, specie in Età imperiale, furono costruite anche nelle città, grazie alle tecniche di riscaldamento e di trasporto dell’acqua a mezzo acquedotti, sempre più evolute.

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Si trattava di complessi monumentali, veri e propri centri ricreativi polifunzionali, con vasche di acqua calda (calidarium), fredda (frigidarium) e tiepida (tepidarium), cui si accedeva gradualmente nelle fasi della balneazione, ma che ospitavano anche sale di lettura, palestre, sale per il relax e i massaggi e perfino piccoli teatri.

Le terme erano aperte a tutti, poco costose, talvolta addirittura gratuite. Si applicavano regole ferree solo nella separazione delle frequentazioni maschili e femminili, dal momento che i bagni si facevano completamente nudi.

I Romani tenevano all’igiene e nelle città realizzarono anche orinatoi pubblici, i Vespasiani (dal nome dell’Imperatore che ne diffuse l’uso), acquedotti e sistemi fognari.

Furono anche emanate opportune leggi per mantenere le città libere da escrementi e spazzatura.

Tuttavia, nuove ricerche archeologiche hanno rivelato che – a fronte di tutte queste innovazioni in campo igienico, i parassiti intestinali, come tricocefali, ascaridi, Entamoeba histolytica e patologie come la dissenteria, non diminuirono – come si potrebbe presumere – in epoca romana, rispetto alla precedente Età del ferro.

I risultati dell’ultima ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Parassitology da Piers Mitchell, paleopatologo del Dipartimento di Archeologia e Antropologia presso l’Università di Cambridge.

Lo studio è il primo ad utilizzare prove archeologiche riguardanti la diffusione dei parassiti nell’epoca romana in una valutazione globale delle ‘conseguenze per la salute che possono derivare dalla conquista di un Impero’.

Mitchell ha raccolto prove di parassiti rinvenuti nelle antiche latrine, nelle sepolture umane e nei coproliti (feci fossili), come pure in pettini e tessuti provenienti da numerosi scavi di epoca romana sparsi ovunque si estendesse l’Impero.

Non solo alcuni parassiti intestinali sembrano aumentare, con l’avvento dei Romani, ma Mitchell ha anche scoperto che, nonostante la cultura del bagno regolare, ‘ectoparassiti’ come pidocchi e pulci erano diffusi tra i Romani praticamente nella stessa misura in cui affliggevano le popolazioni del Medioevo, periodo in cui l’uso del bagno fu molto limitato.

Mitchell osserva: “La ricerca moderna ha mostrato che i servizi igienici, l’acqua potabile e la rimozione delle feci dalle strade avrebbero dovuto far diminuire i rischi di propagazione di malattie infettive. Così, ci si aspettava un calo di parassiti orali o fecali, quali tricocefali e nematodi, invece di trovarne un aumento. La domanda è: perché?”.

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Latrine romane a Leptis Magna in Libia (crediti: Craig Taylor)

 

Secondo Mitchell, una possibile causa poteva identificarsi nelle acque calde degli stabilimenti balneari, che avrebbero potuto favorire la conservazione dei parassiti. L’acqua non veniva cambiata regolarmente e la schiuma degli oli detergenti poteva essere infestata.

Un’altra possibile spiegazione viene indicata nell’uso romano di escrementi umani come fertilizzanti nell’agricoltura. La ricerca moderna ha dimostrato che questa pratica aumenta la resa dei raccolti, a patto che le feci vengano compostate per molti mesi prima di essere aggiunti ai campi, pena la diffusione di uova di parassiti, che sopravvivrebbero nelle piante coltivate.

Lo studio ha individuato anche un’ampia presenza in tutta l’Europa di uova di tenia nei pesci, sorprendentemente aumentata in epoca romana rispetto alle Età del ferro e del bronzo.

Alla base di questa diffusione del verme solitario potrebbe esserci la passione romana per una

salsa alimentare chiamata garum, un composto di pezzi di pesce, erbe aromatiche, sale e aromi, che veniva utilizzato sia in campo culinario che medico. Questa salsa non veniva cotta, ma fatta fermentare al sole. Esportata un po’ ovunque in tutto l’Impero, avrebbe costituito un ottimo vettore per la trasmissione dell’echinococco tenia, secondo Mitchell.

“Sembra proprio che l’igiene non abbia favorito la salute dei Romani, ma probabilmente sarà servita a migliorare il loro profumo”, conclude, non senza ironia, il paleopatologo inglese.

 

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