Bergamo Scienza quest’anno ha ospitato una conferenza del premio Nobel per la Chimica 2008 Martin Chalfie, che ha parlato della scoperta di una proteina, la cosiddetta proteina verde fluorescente (GFP), protagonista di un enorme balzo in avanti nello studio delle cellule in vivo.
In realtà, la proteina chiamata GFP è stata scoperta da un giapponese, Osamu Shimomura, che ha condiviso con Chalfie il premio Nobel e che è riuscito ad isolarla un po’ per caso, come spesso avviene in scienza. Chalfie ci ha raccontato la vicenda, che si è svolta più o meno in questo modo. A sedici anni a Shimomura venne detto che non poteva più studiare, ma che doveva andare a lavorare in una fabbrica, situata non dove egli viveva ma in una valle vicina. La valle era a 15 chilometri dalla città di Nagasaki e questo trasferimento gli salvò la vita quando, nell’agosto del 1945, una bomba atomica al plutonio cadde sulla città.
Per un paio di anni continuò a vivere lì e successivamente riuscì ad frequentare l’università, dove si laureò e iniziò a lavorare subito ad un progetto impossibile, su cui molti suoi colleghi avevano fallito. Si mise a studiare le modalità di emissione della luce da parte di molti esseri viventi in natura, tra cui anche alcune meduse, e riuscì a capire che la causa della luce era una proteina, denominata da allora GFP (Green Fluorescent Protein, Proteina Verde Fluorescente).
Così Shimomura fu invitato negli Stati Uniti a studiare le meduse, e passò un’intera estate a cercare di riprodurre quel meccanismo luminoso. Le provò davvero tutte, ma alla fine si arrese. Quella dannata proteina non voleva (ri)accendersi. Fu così che, preso dallo sconforto, prese le provette, i vetrini, pezzi di medusa e tutto ciò che era sul tavolo del laboratorio e li buttò nel gabinetto. Spense la luce per uscire definitivamente dal laboratorio quando, improvvisamente, vide il water completamente illuminato di luce blu. Cosa c’era nel gabinetto che nelle sue provette non era evidentemente presente? Il calcio disciolto nell’acqua corrente!
Capì in quel momento che 1) bisognava aggiungere calcio, 2) la luce sarebbe dovuta essere stata verde, invece era blu. Il motivo, scoprì poi, era che il calcio si combinava con una proteina, chiamata aequorin, che emetteva luce blu. A sua volta la proteina GFP, eccitata da quella particolare luce di quella esatta lunghezza d’onda, emetteva luce verde.
Tutto questo, molti anni dopo,-era il 1988- fu il tema di un convegno di un tal Paul Brehm presso la Columbia University. Seduto su una delle sedie ad aspoltarlo c’era Martin Chalfie, che stava lavorando al sistema nervoso di un nematode trasparente, il C. elegans (se lo vedeste, cambiereste idea sul nome). Fu lì che scattò l’intuizione che molti anni dopo – era il 1992- portò ai cruciali esperimenti che permisero di inserire la sintesi della proteina GFP all’interno di praticamente ogni essere vivente.
La rivoluzione della biologia in vivo
La proteina GFP poteva facilmente essere prodotta dalle cellule di qualunque organismo. Le cellule potevano essere poi semplicemente illuminate da luce blu ed ecco che l’organismo si illuminava, mostrando per la prima volta nella storia della biologia la vita che scorre all’interno delle membrane cellulari.
In pochi anni le ricerche di Chalfie divennero le più citate in ambito chimico. Un altro ricercatore americano di origini cinesi, Roger Tsien, riuscì a creare una specie di astuccio di pastelli, dove le diverse matite colorate corrispondevano a diverse versioni della proteina GFP (e Tsien condivise il Nobel con Chalfie e Shimomura) che permisero di illuminare la vita a livelli inimmaginabili.
E fu così che una mattina del 2008 un telefono squillò in casa Chalfie… una telefonata a cui nessuno rispose perché la suoneria era bassa e il telefono era in cucina. Marty (per gli amici), appena sveglio, scoprì su internet che c’era il suo nome nel sito dei Nobel, quando la sera prima -ironia della sorte- la moglie gli disse di stare tranquillo, tanto non avrebbe mai vinto il Nobel per la Chimica.