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Nuova datazione rivela che ‘Little Foot’ visse prima di ‘Lucy’

Scritto da Leonardo Debbia il 09.04.2015

Lo scheletro rinvenuto a Sterkfontein e denominato ‘Little Foot’ avrebbe un’età di 3 milioni e 670mila anni. Sarebbe, di fatto, l’ominide più antico vissuto sulla Terra.

La notizia viene da un team di scienziati che ha riveduto le datazioni attribuite in precedenza ai resti fossili scoperti in Africa negli anni Novanta.

Circa 21 anni fa, infatti, in una grotta nei pressi di Sterkfontein, in Sud Africa, venne riportato alla luce uno scheletro quasi completo di Australopithecus, che venne datato poco più di 3 milioni di anni e che venne chiamato Little Foot.

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Cranio di ‘Little Foot’ (STW 573) (Crediti: Università di Witwatersrand)

Lucy, l’Australopithecus afarensis rinvenuto alla fine degli anni Settanta nello stesso continente, ma in Etiopia, molto più a nord, era stato invece collocato intorno ai 3,2 milioni di anni fa.

Lucy era quindi stata considerata la nostra più antica, lontanissima parente.

Oggi, sembra che le cose siano cambiate.

Un team di scienziati provenienti dalla Purdue University, dall’Università di Witwatersrand, in Sud Africa, dall’Università di New Brunswick, Canada, e dall’Università di Tolosa, Francia, ha eseguito una nuova ricerca, affidandosi al professor Darryll Granger, un esperto di datazioni.

I risultati saranno presentati sulla rivista Nature, ma è stato anticipato che la nuova datazione effettuata sullo scheletro di Sterkfontein lo porrebbe intorno ai 3,6 milioni di anni fa, in un’epoca precedente quindi a quella di Lucy.

Ronald Clarke, un professore dell’Istituto di Studi dell’Evoluzione presso l’Università di Witwatersrand, che scoprì lo scheletro di Little Foot, afferma che il fossile rappresenta un’altra specie di Australopithecus, l’A. prometheus, una specie molto diversa dal suo contemporaneo afarensis e con più analogie con il Paranthropus.

Secondo Clarke, “questo dimostra che gli ominidi più recenti – per esempio A. africanus e Paranthropus – non derivano tutte da afarensis. Il problema è che abbiamo solo un piccolo numero di siti diffusi su un ampio territorio e si tende a basare le nostre conclusioni sui pochi fossili ritrovati. La nuova datazione dimostra che sono esistite più specie di australopiteci distribuite su un’area molto più ampia, in Africa”.

La nuova datazione è opera del geochimico Darryll Granger, della Purdue University, che ha lavorato assieme al collega Ryan Gibbon, avvalendosi della misurazione dei radioisotopi di alluminio-26 e berillio-10 accoppiata con un sensore, originariamente destinato ad analizzare campioni di vento solare della missione Genesis della NASA.

La tecnica ha utilizzato i radioisotopi che sono originati dai raggi cosmici per tutto il tempo che la roccia rimane esposta in superficie e che cessano invece quando la roccia viene interrata sotto nei sedimenti.

I rapporti tra gli isotopi dell’alluminio e del berillio danno la datazione più esatta possibile.

Nella grotta di Sterkfontein, ma in un livello diverso, erano stati trovati anche degli antichi strumenti litici.

Ebbene, il metodo di datazione è stato applicato anche a questi strumenti, scoprendo che questi erano databili a 2,18 milioni di anni fa, assicurandoli come i più antichi manufatti in pietra conosciuti sul continente africano.

“E’ ormai chiaro che il piccolo numero di siti così antichi nell’Africa australe è certamente dovuto solo alla ricerca limitata e non all’assenza di ominidi”, conclude la professoressa Kathleeen Kuman, docente di Archeologia del Paleolitico e Mesolitico presso l’Università di Witwatersrand, a Johannesburg.

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