L’avvento dell’agricoltura ha cambiato la nostra storia ed ha affascinato gli scienziati per secoli con le domande che poneva circa il modo in cui potevano essere nate le prime coltivazioni intenzionali da parte dei nostri antenati.
I ricercatori del Grantham Centre for Sustainable Futures presso l’Università di Sheffield, Regno Unito, hanno tentato di spiegare come i cacciatori-raccoglitori abbiano potuto trasformarsi gradualmente in agricoltori e come i raccolti abbiano cominciato a dipendere dalle cure degli esseri umani.
Le colture domestiche sono divenute tali forse per caso, rispetto ai progenitori selvatici; certo è che si tratta di un cambiamento avvenuto agli albori dell’agricoltura, durante l’Età della pietra.
Per colture come i cereali, il momento che segna la domesticazione delle piante si identifica nel passaggio dalla dispersione naturale dei semi per caduta spontanea dalle piante sul terreno alla loro diffusione sistematica su un terreno predisposto ad hoc dagli esseri umani (seminagione).
Per il genere umano fu un notevole passo avanti la possibilità di decidere dove e come far nascere e crescere le piante destinate all’alimentazione propria e del proprio bestiame.
Il professor Colin Osborne, del Grantham, ha dichiarato: “Sappiamo molto poco sulle origini dell’agricoltura, sia perché l’evento risale a 10mila anni fa e sia perché alcuni interrogativi sono rimasti tuttora senza risposta.
“Ad esempio, si ignorano i motivi di fondo che spinsero il cacciatore-raccoglitore a mutarsi in agricoltore e si ignora in che modo le colture divennero ‘domestiche’, al punto che la loro esistenza e distribuzione dovesse dipendere dagli esseri umani”.
“Una controversia, in questo ambito, nasce quando ci si chiede se le antiche popolazioni siano state consapevoli di ‘addomesticare’ le coltivazioni. In altre parole, se fossero a conoscenza o meno di cambiare le caratteristiche di crescita delle colture, oppure se queste caratteristiche si evolvessero solo quando i primi allevatori seminavano in terreni già destinati alle coltivazioni che sarebbero poi state raccolte”.
Fu per puro caso che i cacciatori si accorsero di poter far crescere le piante, mentre osservavano dove i semi andavano a cadere, e solo in un secondo tempo capirono di poter gestire da soli la seminagione e quindi la produzione del cibo?
La nuova ricerca, pubblicata sulla rivista Evolution Letters, mostra l’impatto della domesticazione sulla dimensione delle sementi vegetali.
Qualsiasi allevamento selettivo delle verdure da parte dei primi agricoltori avrebbe dovuto agire sulle foglie, sui gambi o sulle radici, che venivano mangiate come alimento, ma non avrebbe dovuto influenzare le dimensioni dei semi.
Quest’ultima caratteristica dipendeva soltanto dalla selezione naturale.
Questo si pensava.
I ricercatori dell’Università di Sheffield hanno raccolto dati sulle dimensioni dei semi da una serie di colture e hanno scoperto, invece, prove concrete di un accrescimento delle dimensioni a seguito della domesticazione.
In particolare, hanno scoperto che i semi di mais coltivato sono 15 volte più grandi della forma selvatica e i semi di soia sette volte più grandi. Per l’orzo, le dimensioni si accrescerebbero del 60 per cento, e del 15 per cento per il grano emmer.
“In sette specie vegetali, la coltivazione ha prodotto semi notevolmente più grandi”, dice Osborne.
Questi risultati hanno importanti implicazioni per comprendere l’evoluzione dei raccolti, perché significano che i grandi cambiamenti nelle nostre colture potrebbero essere sorti senza l’intervento dei primi agricoltori, ma solo perché agevolati da una selezione involontaria che avrebbe favorito i caratteri trasmessi dalla domesticazione.