Nella storia della Terra, gli impatti di enormi meteoriti con il nostro pianeta non si sono limitati a produrre i vari crateri da impatto di cui ancor oggi la superficie conserva le tracce.
Spesso gli effetti sono andati ben oltre. Una conseguenza – per fortuna poco frequente, ma parecchio devastante – è stata rappresentata dall’innesco di un’attività vulcanica secondaria che, consentendo a materiale di varia composizione chimica di affluire sulla superficie dagli strati più profondi del pianeta, ha avuto effetti sia sulla conformazione fisica e chimica delle rocce superficiali che sul clima.
Un team internazionale, guidato da alcuni geochimici del Trinity College di Dublino, ha verificato testimonianze passate, scoprendo che gli impatti di maggiore entità dettero origine ad eruzioni vulcaniche intense, seguite anche da lunghi decorsi a carattere esplosivo.
I ricercatori in questione hanno studiato le rocce che riempiono una delle strutture da impatto più estese, la cui grande impronta è tuttora visibile sul pianeta, nota anche come ‘bacino di Sudbury’ (Ontario, Canada).
Il ‘bolide’ che la provocò colpì la Terra 1,85 miliardi di anni fa, lasciando per l’appunto una impronta lunga 62 chilometri, larga 30 e profonda 15; un bacino, in cui si formarono poi rocce incandescenti e, successivamente, rocce miste a piccoli frammenti vulcanici.
Questi residui sono presenti non solo lungo tutta la sequenza del bacino, per 1,5 chilometri di spessore, ma hanno anche una forma angolare molto distinta, che gli scienziati dicono somigli ad una ‘chela di granchio’.
Queste forme si ottengono allorchè le bolle di gas si espandono e scoppiano violentemente; una caratteristica tipica di eruzioni violente avvenute a contatto con l’acqua e che sono visibili, ad esempio, anche sotto i ghiacciai islandesi.
Nel cratere di Sudbury, questo tipo di eruzioni continuarono a verificarsi per un lungo periodo di tempo dopo l’impatto, dopo che la cavità era stata inondata dall’acqua di mare.
La chiave per capire l’evoluzione del fenomeno, fondamentale per la ricerca, appena pubblicata nel Journal of Geophysical Research Planets, sta nell’osservare la composizione dei frammenti vulcanici che appare cambiata nel tempo.
Subito dopo l’impatto, infatti, il vulcanismo è direttamente correlato con la fusione della crosta terrestre del punto colpito e con la sua composizione chimica e mineralogica.
Nel tempo, questo vulcanismo interagisce con la composizione dell’area, che viene sempre più modificata dall’apporto di magma proveniente dalle profondità terrestri.
Balz Kamber, docente di Geologia e Mineralogia al Trinity College, afferma: “Questa è una scoperta importante perché chiarisce che il magma che fuoriusciva dai vulcani stava cambiando la sua composizione nel tempo. La ragione dell’importanza della meccanica dei processi chimici porta a riconsiderare l’effetto dei grandi impatti sulla Terra primigenia, che potrebbe essere stato ben più consistente di quanto precedentemente sia stato considerato”.
La Terra primordiale attraversò un periodo relativamente breve durante il quale si verificarono circa 150 impatti di notevole entità, mentre in seguito ce ne fu solo uno di una certa consistenza.
“L’intenso bombardamento cui fu sottoposto il nostro pianeta nella sua fase giovanile ebbe effetti distruttrici sulla superficie, che venne modellata nella sua struttura complessiva”, aggiunge Kamber.
I risultati della ricerca suscitano interesse perché non si limitano alla Terra ma possono essere estesi anche ad altri corpi celesti, quali Mercurio, Venere, Marte e Luna.
Per questi altri corpi, però, a differenza della Terra, la mancanza di una tettonica delle placche e del fenomeno fisico dell’erosione giova a conservare le caratteristiche superficiali, che possono così essere meglio esaminate.
Secondo i geologi, il sito di Sudbury ha un ruolo complementare, dato che offre la duplice opportunità di osservare le rocce direttamente sul posto che di raccogliere una quantità di campioni per le analisi di laboratorio.