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Variazioni genetiche ancestrali guidano i futuri adattamenti

Scritto da Leonardo Debbia il 04.03.2023

In un mio precedente articolo del mese di gennaio scorso riportai i risultati di uno studio sugli effetti negativi per l’umanità conseguenti all’inizio e allo sviluppo dell’agricoltura del Neolitico, ampiamente descritti dal dottor Clark Spencer Larsen, dell’ Ohio State University.

L’effetto che più aveva stupito lo studioso, più che l’alta frequenza associata alla breve durata degli eventi, era stata la rapidità con cui questi cambiamenti si erano susseguiti nel tempo; una rapidità che non si spiegava tanto facilmente.

Si riconosceva che la velocità del cambiamento ambientale avesse costituito un impegno notevole per gli organismi, sia animali, che vegetali. Si riteneva che allorchè questi venivano a trovarsi in un nuovo ambiente, singole piante ed animali manifestavano, sia pure non senza difficoltà, il potere di adattamento alle nuove pressioni cui venivano ad essere esposti.

Questa capacità adattativa fu quindi chiamata plasticità fenotipica, ossia un potere di adattamento individuale.

Una nuova ricerca è stata ora condotta dall’Università di Bangor, nel Galles, ed è stato osservato che i risultati ottenuti pubblicati su Nature Ecology & Evolution suggerirebbero quale percorso adattativo la capacità di evoluzione di un organismo per mezzo di una serie di adattamenti genetici.

E’ probabile – si pensa – che questa plasticità sia stata importante nelle prime fasi della colonizzazione di nuovi luoghi o quando gli organismi siano stati esposti a minacce tossiche nell’ambiente.

Ne sarebbe un ottimo esempio la Silene uniflora, il fiore selvatico che popola le coste del Regno Unito e dell’Irlanda, che si è adattato ai rifiuti tossici e ricchi di zinco dell’era industriale, micidiali per la maggior parte delle altre specie vegetali.

Queste piante che ‘tollerano’ lo zinco si sarebbero evolute da popolazioni costiere in possesso di un’ identica capacità adattativa dal momento che prosperano o hanno prosperato in luoghi e tempi molto diversi.

Per comprendere il ruolo della plasticità di un adattamento rapido, sono stati condotti esperimenti sul mare per verificare se la plasticità ancestrale, sfruttando la rapidità, avesse reso più probabile che geni identici potessero essere utilizzati da popolazioni diverse in ampi spazi.

Confrontando piante tolleranti lo zinco in ambienti contaminati con piante identiche cresciute in ambienti ‘puliti‘ e misurando i cambiamenti dei geni nelle radici, si è verificato che la plasticità ancestrale avrebbe favorito la rapidità dell’adattamento all’ambiente.

“I fiori di Silene uniflora di solito crescono sulle scogliere e sulle spiagge di ciottoli”, spiega il dr Alex Papadopolos, docente presso la stessa Università di Bangor. “L’estrazione mineraria ha aperto a queste piante una nuova nicchia che altre piante non sono state in grado si sfruttare. Il nostro studio dimostra che parte della benefica plasticità delle piante costiere ha sicuramente aiutato le piante della miniera ad adattarsi in fretta”.

“Se un gene risponde positivamente nelle piante ancestrali è molto probabile che venga riutilizzato in tutti i lignaggi che ne discendono, indipendentemente dal nuovo ambiente”.

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