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Nuovi materiali che possono degradarsi nell’acqua di mare

Scritto da Leonardo Debbia il 31.10.2022

La plastica, ormai presente ovunque e in ogni forma, è diventata una seria minaccia per la salute umana e ambientale. In tutto il pianeta le prove dell’inquinamento da plastica vanno dai sacchetti per la spesa sui fondali marini alle microplastiche presenti nelle nostre scorte alimentari e perfino nel sangue.

Nel tentativo di cercare soluzioni per contrastare l’aumento dei rifiuti di plastica, gli scienziati dell’Università della California, S.Diego, (UC S.Diego) hanno sviluppato nuovi materiali biodegradabili, progettati appositamente in sostituzione della plastica usata di consueto.

Dopo aver dimostrato che le schiume poliuretaniche da loro stessi prodotte si biodegradavano

nei composti terrestri, un team interdiscplinare di studiosi, fra cui Stephen Mayfield, biologo della UC San Diego e i chimici Michael Burkart e Robert “Skip” Pomeroy, hanno ora dimostrato che nuovi materiali da loro prodotti si biodegradavano anche nell’acqua di mare.

I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Science of the Total Environment.

Premesso che il problema dell’inquinamento da plastica è da considerarsi una crisi ambientale globale, nel 2010 i ricercatori avevano stimato che ogni anno entravano negli oceani 8 miliardi di chilogrammi di plastica, una enorme quantità che, secondo le previsioni, era destinata ad aumentare notevolmente entro il 2025.

Ma come avviene l’inquinamento e come evolve?

Riversandosi negli oceani, i rifiuti di plastica sconvolgono gli ecosistemi marini, migrano e, trasportati dalle correnti, vanno a concentrarsi in aree marine particolarmente accoglienti, sotto forma di giganteschi cumuli, di cui un esempio conosciutissimo è il Grande Pacific Patch, che copre un’area di oltre 1,6 milioni di chilometri quadrati.

Queste plastiche, anzichè degradarsi, si frammentano in particelle sempre più piccole, fino a diventare microplastiche di dimensioni trascurabili, ma destinate a persistere nell’ambiente per secoli..

Lavorando di concerto con la biologa marina Samantha Clements della Scripps Institution of Oceaograpphy, i ricercatori della US S. Diego hanno condotto una serie di test sui loro materiali prodotti di poliuretano, biodegradabili, scoprendo che moltissimi organismi marini colonizzavano le schiume del poliuretano con cui venivano in contatto, biodegradando il materiale e riportandolo alle sostanze chimiche di partenza. Tutto questo al fine di una utilizzazione nutrizionale di questi stessi microrganismi (batteri e funghi) presenti nell’ambiente oceanico.

Abbiamo dimostrato che è possibile realizzare prodotti in plastica ad alte prestazioni che possono degradarsi negli oceani”, afferma Mayfield. “Anche se in primo luogo la plastica non dovrebbe finire in mare, quando questo accade, i nostri materiali diventano cibo per microrganismi e non danneggiano la vita acquatica”.

Una curiosità: una notevole percentuale di plastica che finisce in mare è costituita dalle scarpe, comprese le infradito. Ed è sulle calzature che si sono concentrate le attenzioni degli scienziati.

Allo studio si è dedicato uno schieramento di esperti di biologia, di chimica sintetica e scienze marine. I campioni di schiuma sono stati esposti alla dinamica delle maree e delle onde e monitorati per i cambiamenti fisici e molecolari, usando la spettroscopia a raggi infrarossi e la microscopia elettronica a scansione.

Il risultato è che il materiale plastico ha iniziato a degradarsi in appena quattro settimane.

Con i materiali plastici usati dal team di Mayfield, questa plastica diventava innocua. Anzi! Diventava cibo per microrganismi.

Con somma soddisfazione degli studiosi, i risultati ottenuti in ambiente terrestre si sono così ripetuti in ambiente marino.

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