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Biocarburanti: agricoltura e clima a rischio? Il passo indietro di Bruxelles

La crescente domanda di materie prime per la bioenergia sta generando conflitti di uso del territorio, attualmente oggetto di discussione per quanto concerne la controversia tra cibo e biofuel, e il dibattito sugli effetti del cambiamento indiretto dell’uso del territorio

Scritto da Nadia Fusar Poli il 24.10.2012

Un team interdisciplinare di 11 scienziati provenienti da sette paesi europei e dagli USA ha discusso la possibilità di utilizzare il cosiddetto surplus di terra per la produzione di materie prime destinate alle bioenergie. Essi hanno identificato i vincoli ambientali, economici e sociali, ma anche le opzioni per l’uso efficiente del surplus di territorio per le bioenergie. Lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Biorisk, fornisce un background scientifico a sostegno di una nuova valutazione di terra disponibile per la produzione di bioenergia.

La crescente domanda di materie prime per la bioenergia sta generando conflitti di uso del territorio, attualmente oggetto di discussione per quanto concerne la controversia tra cibo e biofuel, e il dibattito sugli effetti del cambiamento indiretto dell’uso del territorio.  La confusione e la difficile applicabilità di tali concetti è causata da un’ambigua definizione e caratterizzazione delle eccedenze (surplus) dei terreni, da incertezze nelle valutazioni della disponibilità di terreno, sia a livello nazionale che su scala globale, nonché dei potenziali rendimenti delle colture bioenergetiche.

Secondo gli autori non si ha ancora una piena comprensione di quanta terra sia veramente attiva e adatta alla produzione di colture energetiche, “perché i vincoli derivanti dalle implicazioni ambientali e socio-economiche di sviluppo delle bioenergie in quelle zone sono spesso non contabilizzati nelle valutazioni di disponibilità di terreno”. Gli  autori suggeriscono un riesame approfondito della disponibilità di terreno per la produzione di bioenergia, la necessità di una maggiore chiarezza nell’uso della terminologia così come l’urgenza di considerare sia i vincoli che le opzioni per un uso efficiente e sostenibile del territorio destinato a tale settore. L’utilizzo di opzioni fornite da sistemi colturali innovativi e avanzati, potrebbe rappresentare un ottimo strumento operativo per determinare un’effettiva riduzione delle emissioni senza strappare terreni alla produzione di cibo.

Intanto non sembra smorzarsi il dibattito a livello europeo sulla sostenibilità dei biocarburanti e Bruxelles fa un passo indietro: la produzione di biofuel non deve rappresentare un fattore di rischio per l’agricoltura e per l’ambiente. Muovendo da questa nuova prospettiva il 17 ottobre la Commissione Europea ha presentato al Parlamento e al Consiglio Europeo una proposta di modifica della Direttiva 98/70/CE, in materia di qualità dei carburanti e della Direttiva 2009/28/CE, sulla promozione delle energie rinnovabili.

La nuova linea di condotta della Commissione europea deriva dall’esigenza di intervenire sulla legislazione e, in particolare, su tre aspetti fondamentali:

– Ridurre gli incentivi ai biocombustibili derivanti da colture alimentari come mais, colza e zucchero e sostenere i biocarburanti alternativi, cosiddetti di seconda e terza generazione per i quali non si rende necessario un ulteriore sfruttamento di terreno (ad esempio alghe, paglia, rifiuti vari…) e che dunque non incidono sulla produzione alimentare a livello mondiale.

– Aumentare la soglia minima di riduzione dei gas effetto serra per i nuovi impianti con l’obiettivo di “scoraggiare ulteriori investimenti in impianti che danno scarsi risultati nella riduzione delle emissioni” e che sono quindi poco efficienti. 

– Valutare attraverso il fattore ILUC (Indirect Land Use Change) l’impatto del cambio di  destinazione d’uso dei terreni  sulle prestazione dei carburanti, in termini di emissioni di gas serra. In altre parole: in che termini e in quale misura la terra sottratta al contesto naturale  e coltivata per produrre combustibili, provoca in modo indiretto un incremento delle emissioni di CO2, annullando, di fatto, ogni beneficio connesso all’utilizzo di biocarburanti?

Il passo indietro di Bruxelles rispetto a tali tipi di combustibili, significa la fine dei biocarburanti? Non vi è alcun dubbio che l’idea dell’UE di rivedere i propri obiettivi e frenare gli aiuti al biofuel, segna un importante  punto di svolta. L’esecutivo Ue, che nel 2009 aveva chiesto agli stati membri che il 10% dei carburanti utilizzati provenissero dalle rinnovabili, inclusi i biocarburanti, ha capito che è imprudente sostenere una  produzione extra di biofuel tradizionale. I prezzi del cibo sono volatili e le pressioni sul territorio sono in aumento in tutte le regioni del mondo: questo causa gravi danni a livello locale,con pesanti ripercussioni sulle comunità che rischiano l’esproprio dei terreni destinati alla produzione di cibo e sui tanti piccoli produttori alimentari.

Dobbiamo sconfessare del tutto i biocarburanti? Il nuovo punto di partenza dovrebbe essere quello di mettere la sicurezza alimentare al primo posto. A livello globale, il 25% dei terreni è già degradato, e le rimanenti aree produttive sono vittime di una feroce concorrenza, a livello industriale ed urbano. Tale situazione è aggravata dalla crescita del commercio internazionale e dagli investimenti. 

Gli Stati dovrebbero prendere in considerazione non solo il fatto che i biocarburanti possono esercitare pressioni sui prezzi del cibo e sulla produzione alimentare del territorio, ma anche sulla struttura stessa del settore agricolo. Un sussidio per i biocarburanti si traduce, il più delle volte, in una sovvenzione per modelli di produzione agricola con le maggiori economie di scala. I modelli in cui la produzione di biocarburante rafforza e valorizza i produttori locali di generi alimentari, così come i sistemi alimentari, piuttosto che sradicarli, sono al contrario pochi e lontani tra loro. 

In effetti, se i biocarburanti devono avere un futuro, è necessario pensare su piccola scala e a livello locale, in modo da mettere reddito nelle mani degli agricoltori, spesso tra i più poveri e a rischio  insicurezza alimentare, sostenendo, nello stesso tempo, coloro che hanno un interesse a lungo termine a mantenere – e non solo a sfruttare – la risorsa naturale. Questo è il contesto in cui tutto lo sviluppo agricolo – per il cibo e il carburante – deve essere concepito.

Con o senza i biocarburanti, molte regioni sono, e rimarranno, fortemente dipendenti dalle importazioni, in primis per soddisfare il fabbisogno di cibo e sfamare donne e uomini. Ma se le scarse risorse produttive devono essere destinate alla bioenergia, occorre chiedersi in che misura le comunità locali soffriranno in termini di insicurezza alimentare, se le risorse locali non potrebbero essere meglio utilizzate per soddisfare i bisogni alimentari locali (riducendo così la dipendenza dalle importazioni) e quali modalità di agricoltura potrebbero essere favorite. Ed infine: non sarebbe forse meglio rendere questi territori economicamente meno “marginali” attraverso lo sviluppo dei mercati locali?

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