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Intelligenza e senso comune

Come la globalizzazione della tecnologia digitale manipola la conoscenza

Scritto da Aldo Di Benedetto il 09.08.2014

Come ricorda il fisico ed epistemologo Ignazio Licata, nella sua opera “La logica aperta della mente”, nel convegno tenutosi nel 1956 al Dartmouth College di Hanover, il matematico John Mc Carthy, per la prima volta utilizzò lo stravagante appellativo di “intelligenza artificiale”, stimolando la metafora della macchina pensante che, ai nostri giorni, simboleggia il paradigma dell’uomo digitale. Da allora, tale intrepida espressione alimenta molteplici riflessioni nel mondo della ricerca scientifica, in particolar modo nell’ambito delle scienze cognitive. Tuttavia – precisa Licata – “l’effetto più clamoroso di tali argomentazioni è stato il frenetico sviluppo nella tecnologia e nel marketing degli elaboratori digitali”.

intelligenza artificiale

Orbene, dobbiamo precisare che il modello informatico della cognizione considera la conoscenza slegata dal contesto e dai valori, perché basata su dati astratti. Invece tutta la conoscenza espressiva e significativa è apprendimento legato a un contesto, fondato su modalità empiriche e implicite.

Come sostiene Theodore Roszak in The cult of information, non è l’informazione a creare le idee, ma sono le idee a creare l’informazione.  “Le idee sono schemi integranti che non derivano dall’informazione ma dall’esperienza”.
Similmente il linguaggio è considerato un canale attraverso cui si comunica un’informazione “oggettiva”.  In realtà, come ha sostenuto efficacemente il professor C.A. Bowers, dell’Università della California, “il linguaggio è metaforico, poiché trasmette conoscenze implicite, condivise all’interno di una cultura”.

Al riguardo si evidenzia come il linguaggio, usato dagli scienziati e dagli ingegneri informatici, è intriso di metafore originate da una nomenclatura militare, tra cui diverse parole entrate persino nell’uso comune; tra queste target” (bersaglio), “out look” (prospettiva), “command” (comando), “escape” (via di fuga), “fail save” (procedura di sicurezza), “pilot” (pilota).   D’altro canto, tale linguaggio esoterico genera pregiudizi culturali e impedisce a molte persone di partecipare pienamente all’esperienza dell’apprendimento.  Un esempio significativo di tale aberrazione della conoscenza è la relazione che lega i computer alla violenza e alla cultura militarista della maggior parte dei videogiochi .

Ciò nondimeno la parola oggi più abusata, penetrata eufemisticamente nel senso comune, è la locuzione anglofila “SMART”, con la quale si ha la pretesa di rendere “intelligente” ogni cosa materiale. Ormai non c’è pubblicità che non utilizzi questo verbo “magico”, tra cui la dilagante telefonia smart-phone.  Il termine è associato a campagne di pubblicità e marketing per promuovere e vendere prodotti e servizi più vari: dalle auto, ai filtri per i rubinetti dell’acqua domestica. Elaboratori digitali, mezzi di trasporto, apparecchiature tecnologiche, uffici, ogni struttura, prodotto e servizio, persino le città aspirano a essere “SMART”; inoltre, tra le ultime trovate ci sono gli SMART SHOP, negozi adibiti a vendere prodotti stimolanti a base di “erbe” e integratori per migliorare le “prestazioni” e lo sballo dei giovani nelle discoteche.  Paradossalmente, in un prossimo futuro, ci sarà proposta anche una “scuola SMART”, dove gli insegnanti saranno eventualmente sostituiti da super computer “intelligenti”!

Erroneamente e con superficialità, l’uso della tecnologia digitale nella scuola si basa su una visione degli esseri umani come elaboratori d’informazioni; una concezione, questa, che rafforza continuamente le ingannevoli concezioni meccanicistiche su cosa sia il pensiero, la comunicazione, la conoscenza.  L’informazione è presentata come il fondamento del pensiero, mentre in realtà la mente umana pensa per mezzo d’idee, non d’informazioni.

Nella sua ultima opera “Le false promesse della rivoluzione digitale” – una forte critica sui pericoli della globalizzazione delle tecnologie digitali – Bowers evidenzia come questa rivoluzione abbia generato la colonizzazione e l’emarginazione di tante culture e di sistemi d’intelligibilità essenziali alla sostenibilità ecologica e civile, con la conseguente perdita di lingue e patrimoni di conoscenze che non possono essere digitalizzati.

Fritjof Capra, nella sua opera “La rete della vita”,  sostiene che “Molta confusione è provocata dal fatto che gli scienziati informatici usano parole come intelligenza, memoria e linguaggio per descrivere i computer, inducendoci così a credere che queste espressioni si riferiscano ai fenomeni umani di cui abbiamo conoscenza diretta”. L’illustre scienziato precisa che “si tratta di un grave equivoco” poiché “la vera essenza dell’intelligenza consiste nel fatto di agire in modo appropriato quando un problema non è definito chiaramente e le soluzioni non sono evidenti.  Il comportamento dell’uomo, in tali situazioni, si basa sul senso comune, formatosi grazie alle esperienze vissute”. Per quanto riguarda i computer, -aggiunge Capra – “a causa della loro cecità di astrazione e delle limitazioni intrinseche nelle operazioni formali, non hanno senso comune, perciò è impossibile programmarli perché siano intelligenti.”

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