pensando alla strage di cani e gatti in Ucraina per gli Europei di calcio
e a tutte le stragi di innocenti
E questo vorrei: superare l’antropocentrismo. Essere la periferia. Senza sapere nemmeno cosa sia la periferia. Né tanto meno il centro. Tanti centri, solo centri. Tante periferie, solo periferie. Forse diluire l’idea di spazio. Spazio interiore. La terra è rotonda: dovunque proprio dovunque è centro e periferia. Dipende da dove si guarda. Chi guarda. Se guarda. Se vede e come vede. Tante variabili perché il centro è ovunque, ovunque la periferia.
Vorrei superare l’idea che l’uomo sia al centro. Vorrei superare la sensazione che io, proprio io, sono al centro.
Giacché la terra è rotonda è difficile non pensarsi al centro. Ma proprio perché la terra è rotonda non dovrebbe essere difficile pensare che tutto può essere al centro. Lo spazio fisico è così. Ma non lo è lo spazio mentale, la coscienza.
Superare l’antropocentrismo farebbe bene a tutti, in primis all’uomo. Essere sempre al centro può dare dei vantaggi, ma crea spesso responsabilità enormi. Essere sempre al centro può rendere euforici, ma anche infelici. Di certo porta all’ubris, già i Greci lo sapevano. L’ubris cioè appunto la tracotanza, in poche parole il credersi al centro dell’universo.
Superare l’antropocentrismo essendo antropoi cioè uomini è esercizio estremo. Forse addirittura esperienza impossibile. Io, che ritengo l’antropocentrismo il male principale della Terra, io sono prigioniera dei miei confini esistenziali, di specie. Io sono antropos non c’è niente da fare. Non posso scodinzolare per dire come sto. Non posso volare con le mie proprie ali. Non posso produrre grano o ciliegie.
In effetti il problema è posto in modo sbagliato. Superare l’antropocentrismo non vuol dire non essere più noi stessi, cioè esseri umani. Direi che potrebbe voler dire esserlo di più, più compiutamente, con la sicurezza di chi è se stesso senza credersi di più o di meno. Che poi l’effetto è lo stesso: distruttivo.
Leopardi in una delle Operette Morali immagina che il mondo sia improvvisamente privato degli uomini. Ne prendono atto, con comprensibile sollievo, uno gnomo e un folletto. Ma questi inevitabilmente, secondo il poeta, arrivano a dire che il mondo deve essere gnomocentrico, oppure follettocentrico. Come se ognuno si ponesse al centro di tutto, come se fosse impossibile concepire un mondo fatto di tanti centri o di tante periferie come si preferisce.
Io vorrei vivere in quel mondo. Vorrei uscire dalla prigione del mio essere la misura di tutto, vorrei essere la misura di me stessa e già sarebbe molto, forse troppo.
Nella concezione che l’uomo ha di sé ci vorrebbe la rivoluzione della dodecafonia, in cui ogni nota vale quanto le altre, niente tonalità. Schönberg teorizza questo «Metodo di composizione con 12 note imparentate solo le une alle altre».
Una musica tremenda mi direte, dipende dai punti di vista e dalla conoscenza, alla fin fine è questione di orecchio e di abitudine. Può darsi che col tempo anche noi sapremo vivere in maniera magari un po’ meno ordinata, ma almeno più equa, abolendo l’antropocentrismo per un tuttocentrismo più rilassato e più divertente per tutti.
PS In ogni caso se proprio non reggete la musica dodecafonica, sappiate che i musicisti più antichi, ad esempio Claudio Monteverdi, non avevano tutte le “prigioni” tonali introdotte in seguito, potete allenarvi con le loro dissonanze.
Argomenti tutti condivisibili, ma avrei preferito l’approfondimento, inerente alla nostra barbarie umana millenaria (ma pare non originaria) dei costanti massicci internazionali omicidi animali a scopo alimentare e venatorio-sportivo. Ciao Maria rosa, fatti sentire più spesso! Franco Matteo Mascolo, apulocampano in Milano