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Contaminazione da piombo nell’acquedotto romano dell’antica Napoli

Scritto da Leonardo Debbia il 24.05.2016

L’inquinamento non è solo un problema attuale, ma è iniziato molto tempo fa, probabilmente con le prime attività umane, anche se solo ora è assurto a vera e propria minaccia per la salute.

Nell’acqua di cui si servivano gli antichi Romani, ad esempio, la percentuale di piombo era 100 volte maggiore di quella che troviamo oggi nelle sorgenti.

La fonte principale era sicuramente il complesso sistema di tubature, costruite con questo metallo, che però, secondo gli scienziati, non rappresentava affatto la minaccia per la salute pubblica ritenuta in passato.

Nonostante questi alti livelli di piombo che potevano alimentare la diffusione di forme gottose, oggi si dubita fortemente che l’acqua di quel tempo potesse avvelenare i Romani.

Le fistulae, i tubi usati per le reti idriche, si costruivano con lo stesso piombo estratto dalle miniere in Spagna, Francia, Inghilterra e Germania, che veniva usato anche per le tubature di quelle regioni.

Si è voluto comunque studiare l’impatto che l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ebbe sull’acquedotto Aqua Augusta, che riforniva Napoli e le città vicine, andando a ricostruire così alcuni periodi di storia partenopea.

 

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Il sito archeologico dell’antico porto di Napoli si trova di fronte alla piazza municipale e pochi metri al di sotto dell’attuale livello del mare (credit: Hugo Delile)

Recenti analisi geochimiche hanno consentito di confrontare il piombo contenuto nell’acqua di quel periodo con quello rinvenuto nei sedimenti del vecchio porto di Napoli.

I risultati mostrano che la rete idraulica andata distrutta dall’eruzione era stata completamente ripristinata nei quindici anni successivi.

La ricerca è stata riassunta in un articolo pubblicato sulla rivista PNAS dal Laboratoire Archèorient-Environnements et Sociétés de l’Orient ancien (CNRS / Université Lumière Lyon 2), in collaborazione con l’Università di Glasgow, l’Università di Southampton e l’Università degli Studi ‘Federico II’ di Napoli.

Detto per inciso, il laboratorio francese fa parte della Maison de l’Orient et de la Méditerranée Jean Pouilloux, una federazione di ricerca sulle società antiche.

Durante la costruzione di una nuova linea della metropolitana, è stato possibile procedere con alcuni scavi archeologici dell’antico, e per lungo tempo sepolto, porto di Napoli, ed esaminare un deposito di sei metri di strati, sedimentati nel porto nel corso dei secoli.

Le analisi geochimiche di questi depositi hanno mostrato che l’acqua del porto era stata contaminata una prima volta, sei secoli a.C., con piombo dal sistema di circolazione dell’acqua proveniente da Napoli e dai comuni limitrofi.

Il piombo delle tubature si era disciolto nell’acqua e aveva raggiunto fontane e altri punti di approvvigionamento della città, prima di riversarsi nel porto.

Studiando la proporzione dei diversi isotopi presenti nei sedimenti, è stato possibile ripercorrere gli eventi di duemila anni fa.

Le analisi hanno rivelato la presenza di due isotopi del piombo, prima e dopo l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., dimostrando che la maggior parte del sistema di approvvigionamento idrico della baia di Napoli venne distrutto dall’eruzione vulcanica e poi ricostruito utilizzando piombo proveniente da una o più diverse aree minerarie.

La presenza dei due isotopi segnalano una utilizzazione in due tempi, la seconda delle quali avvenuta quindici anni dopo l’eruzione, suggerendo che i Romani provvidero alla riparazione dell’acquedotto in un periodo di tempo relativamente breve.

Lo studio aiuta anche a ricostruire le diverse fasi di sviluppo urbano della città di Napoli dal 1° al 5° secolo d.C.

La presenza costante del piombo nei sedimenti fa supporre un ampliamento della rete idraulica o un maggiore sfruttamento di quella già esistente.

Dall’inizio del 5° secolo, tuttavia, i sedimenti appaiono meno contaminati, facendo ipotizzare che la fornitura d’acqua possa aver subito rallentamenti o ulteriori danni conseguenti alle invasioni barbariche.

L’acquedotto fu infatti interrotto, in modo che fosse tagliato l’approvvigionamento d’acqua alla città.

Ai presunti danneggiamenti si accompagnarono anche nuove eruzioni del Vesuvio (472 e 512 d.C.), epidemie e un collasso economico-amministrativo della città.

Questa interpretazione dell’inquinamento da metalli negli antichi sedimenti portuali, che permette di ripercorrere la storia di una regione, trova corrispondenza anche in altre civiltà e altre aree geografiche.

In un discorso più ampio, legato al concetto di Antropocene, questo approccio potrebbe fornire nuove prospettive sulle dinamiche e sull’impatto dell’impronta umana sull’ambiente.

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