Volendo misurare le foreste in termini di carbonio catturato, sono 4 i miliardi di tonnellate di vegetazione che abbiamo guadagnato dal 2003. Dobbiamo questi calcoli ad uno studio pubblicato su Nature Climate Change e curato da un team internazionale di scienziati, guidato da australiani, che si è interrogato sulle cause del fenomeno.
Deforestazione sistematica in Amazzonia – immagine dal satellite
Non si può dire che lo stato di salute delle nostre foreste, assieme ad una quantificazione della loro estensione, non siano sufficientemente indagati. Riceviamo, quasi a giorni alterni, notizie contrastanti: da un lato si legge che perdiamo foreste, soprattutto in aree tropicali, a causa della deforestazione, dall’altro si legge, anche su rapporti prestigiosi, di un calo nel trend di deforestazione, che ci porta a credere che allora, da qualche parte, boschi e foreste in realtà siano in aumento.
Secondo Yu Li, uno degli autori principali dello studio ed esperto di tecniche di remote sensing, all’origine di questo fenomeno sono una fortunata combinazione di fattori ambientali, economici, ed i grandi interventi di riforestazione condotti negli ultimi anni dalla Cina.
Mentre questo tipo di studi, fino a poco tempo fa, si affidava perlopiù all’analisi di cambiamenti nella copertura forestale, questa ricerca è stata condotta utilizzando una tecnica innovativa, basata sull’analisi di venti anni di immagini satellitari in grado, adeguatamente trattate, di restituire una misura delle onde radio naturalmente emesse dalla superficie del nostro pianeta.
Questo approccio ha permesso di scoprire come le perdite più gravi, per quantità ma anche per qualità della vegetazione, riguardino la foresta amazzonica, l’isola di Sumatra e Kalimantan, la porzione indonesiana dell’isola del Borneo.
Il trend, in termini di variazione nella biomassa vegetale, risulta invece positivo nelle savane australiane, africane, e sudamericane, dove secondo gli autori l’incremento della vegetazione sarebbe riconducibile ad un generale aumento delle precipitazioni. L’accresciuta disponibilità idrica potrebbe essere stata ulteriormente supportata nella sua azione benefica dagli alti livelli di anidride carbonica rilasciati in atmosfera, che a loro volta contribuirebbero ad accelerare il ritmo di crescita della vegetazione. Sugli impatti che l’accumulo di gas serra, come l’anidride carbonica, producano nei confronti degli ecosistemi forestali, il dibattito è ancora aperto.
In particolare, se pure è stato dimostrato che maggiori concentrazioni di diossido di carbonio stimolino le piante ad un utilizzo più efficiente dell’acqua, non si può sottovalutare come incremento di temperature ed aridità, effetti collaterali dell’aumento di questi gas in atmosfera, siano a loro volta responsabili del declino e della morte di molte foreste. A spiegare questo meccanismo ha provveduto un recente studio americano, pubblicato su Nature Geoscience, che analizzando in dettaglio i devastanti effetti delle torride stagioni 2000-2003 su popolamenti di pioppo tremulo negli Stati Uniti sud-occidentali, è riuscito a definire la soglia di aridità oltre la quale il sistema di trasporto vascolare dell’albero è irrimediabilmente compromesso.
Ma tornando alle savane in crescita, il loro è un equilibrio assai precario e fragile. Secondo Pep Canadell, co-autore della ricerca, basterebbe che il clima si inaridisse per ostacolare la capacità della vegetazione di catturare carbonio ed invertire il trend positivo del bilancio. E se le formazioni vegetali, che insieme agli oceani catturano circa il 50% delle emissioni di anidride carbonica derivanti da attività antropiche, diminuissero la loro attività di serbatoi di carbonio, il fenomeno del riscaldamento globale si manifesterebbe in modo decisamente più repentino. Pertanto, come sottolineato da Canadell, l’unico modo per interrompere questa spirale e tamponare la minaccia del global warming è ridurre le emissioni, soprattutto quelle da combustibili fossili, a zero.
Anche in Russia e nei paesi dell’ex URSS le foreste sono in crescita, ricolonizzando territori abbandonati e vecchi coltivi. Mentre nei casi sopracitati, tuttavia, le dinamiche sono fortuite e naturali, la Cina, con tre massicci interventi di riforestazione, è forse il paese che negli ultimi anni più attivamente si è impegnato nella ricostituzione del proprio patrimonio forestale.
Ma è sufficiente intervenire a posteriori, affidarsi alla capacità colonizzatrice della vegetazione?Anche ammesso che le foreste in crescita compensino quantitativamente quelle che perdiamo, basta forse questo per raggiungere un equilibrio?
In effetti la questione è tutt’altro che elementare. Non possiamo permetterci il negligente lusso di mettere a confronto un ettaro di foresta temperata con un ettaro di foresta tropicale.
Quelle che ogni anno distruggiamo sono immense superfici caratterizzate da ecosistemi complessi, ricchi di vegetazione pluristratificata ed abitati da una ricchissima componente animale, vastissima ed in parte ancora sconosciuta. E come un ulteriore studio effettuato a Sumatra e pubblicato su Tropical Conservation Science ha recentemente dimostrato, la chiave per il successo nel restauro di ecosistemi tropicali degradati è proprio nella disponibilità di grandi mammiferi che disperdano i semi. Pertanto possiamo lasciar fare alla natura, ben consapevoli che i suoi tempi non sono i tempi dell’uomo, oppure possiamo cercare di impegnarci attivamente: nella lotta alla deforestazione, nella rimozione del disturbo, nella ricostituzione di ecosistemi. Tenendo, però, sempre a mente un concetto: qualunque tentativo di restaurare un ambiente forestale non può che passare per la riabilitazione, la tutela e la conservazione di tutte le componenti del sistema.