Si chiama Veleni di Sicilia, l’inchiesta realizzata da Saul Caia e Rosario Sardella, giornalisti di FaiNotizia.it, canale di approfondimento di Radio Radicale, che denuncia l’inquinamento industriale dei SIN, i Siti di Interesse Nazionale, presenti in Sicilia. Siracusa, Gela e Milazzo sono state il triste palcoscenico di vicende analoghe all’ILVA di Taranto, con ingenti impatti sull’ambiente e drammatiche ripercussioni sulla salute umana.
Siracusa dal 1998 è entrata a far parte dei Sin, delle aree industriali cioé ad alto rischio di crisi ambientale, perché le aziende, che hanno operato sul territorio a partire dagli anni ‘50, hanno sì creato sviluppo economico e occupazionale, ma hanno anche generato in risposta un pericoloso impatto ambientale in termini di contaminazione di aria, suolo e acque.
L’industria chimica, petrolchimica e la raffineria che hanno fatto sì che il distretto industriale di Siracusa fosse uno dei poli più grandi d’Europa in realtà hanno avuto un impatto devastante sulla vita dei siciliani. Cenere di pirite, catalizzatori e sacchi di materiali ormai deteriorati sono stati ritrovati nel centro di Priolo, in una cava abbandonata; così come la stessa cenere, ricca di arsenico e vanadio, è stata rinvenuta nella penisola di Magnisi, l’antica Tapsos, sede di una necropoli dell’età del Bronzo. La stessa cenere è presente anche nel campo sportivo di Priolo e in quello di Augusta. “Le bonifiche sono una spesa enorme per la collettività – spiega Francesco Licata Di Baucina, direttore generale dell’Azienda regionale protezione ambiente in Sicilia –. E il principio ‘chi inquina paga’, pur sacrosanto, presenta notevoli difficoltà applicative”. Nella maggior pare dei casi infatti si verifica uno scarico di responsabilità, di cui alla fine nessuno è responsabile. L’amara constatazione è che nel 2004 sono stati stanziati ben 64 milioni di euro per l’agglomerato di Priolo, di cui il 90% già erogati destinati alla rada di Augusta, allo stabilimento Eternit, alla penisola di Magnisi e ai porti di Siracusa e realizzate solo in parte.
Non molto diversa si presenta la situazione a Gela, dove fu scoperto un grande giacimento di greggio e nel 1965 nacque una raffineria dell’ENI, che tuttora raffina 5 milioni di tonnellate di greggio l’anno, 100mila barili al giorno. Ad impattare sulle famiglie residenti a Gela è da un lato la recente virata verso le produzioni green del colosso energetico (con 3500 posti di lavoro a rischio) ma anche le ricadute sull’ambiente. Diventata una zona tra le “aree ad elevato rischio ambientale” già nel 1990 e inserita nei SIN nel 1998, Gela presenterebbe “una contaminazione da metalli pesanti nei prodotti locali che può essere associata prevalentemente all’uso irriguo di acqua di falda contaminata e all’inquinamento atmosferico”, stando allo studio Sentieri dell’Istituto superiore di sanità con “la prevalenza alla nascita di ipospadie (una malformazione dell’apparato riproduttivo maschile, ndr), tra le più elevate mai riportate in letteratura”. Più di 700 le famiglie colpite. A questo si aggiunge l’inchiesta della Procura per verificare la responsabilità di Eni nella morte di 16 operai morti di tumore, che tra il 1971 e il 1994 avevano lavorato nell’impianto Cloro-soda. Gli ex operai ancora in vita, avendo contratto patologie simili, si sono costituiti parte civile.
Anche il polo di Milazzo nel 2002 è stato dichiarato “area ad elevato rischio di crisi ambientale” a causa sia dell’inquinamento sia delle polveri sottili, che hanno causato in molti operai l’asbestosi, una malattia polmonare dovuta alla lavorazione quotidiana delle fibre di amianto senza le dovute precauzioni. Gli ex operai del petrolchimico e quelli di Eni denunciando la mancanza di centraline per il monitoraggio dell’inquinamento atmosferico dell’Arpa, l’Azienda regionale protezione ambiente, chiedono il riconoscimeno della malattia professionale. A questo si sommano i risultati di uno studio condotto su 200 bambini residenti nel territorio di Milazzo, che presenterebbero la metilazione del Dna, cioè un’alterazione del Dna. A seguito dell’inchiesta avviata dalla procura inerente il funzionamento degli impianti di trattamento delle acque reflue della raffineria, tali impianti sono stati sequestrati. L’accusa è stata di omissione delle procedure d’emergenza previste per evitare lo sversamento in mare di oltre 61 metri cubi di sostanze idrocarburiche. Anche in questo caso i reati principali sono stati il disastro ambientale colposo e lo smaltimento illecito di rifiuti.