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Misurazioni dell’acidificazione degli oceani a mezzo satelliti

Scritto da Leonardo Debbia il 26.02.2015

Tecniche pionieristiche che utilizzano i satelliti per monitorare l’acidificazione degli oceani sono destinate a rivoluzionare le attuali modalità con cui i biologi marini e gli scienziati del clima studiano l’oceano.

Questo nuovo approccio, proposto sulla rivista Environmental Science and Technology, consiste nel monitoraggio a distanza di ampie aree oceaniche, altrimenti poco accessibili, servendosi dei satelliti che orbitano attorno alla Terra, a circa 700 chilometri sopra le nostre teste.

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Il satellite SMOS (Soil Misture and Ocean Salinity) dell’Agenzia Spaziale Europea, può essere impiegato nella misura dell’acidificazione degli oceani terrestri (crediti: ESA / AOES Medialab)

Ogni anno più di un quarto delle emissioni globali di anidride carbonica, provenienti da combustibili fossili e dalla produzione di cemento, finiscono negli oceani terrestri.

Questa immissione di CO2 aumenta l’acidità dell’acqua di mare, complicando notevolmente l’esistenza degli ecosistemi marini.

L’aumento delle emissioni ed il conseguente aumento di acidità dell’acqua avrebbero, infatti, il potenziale di devastare alcuni ecosistemi marini già entro il prossimo secolo, essendo in grado di distruggere in modo irreparabile una risorsa alimentare di base per tutta l’umanità.

Ne consegue che si impone un attento monitoraggio delle variazioni di questa acidità.

A tale proposito, i ricercatori dell’Università di Exeter, del Plymouth Marine Laboratory,

dell’Institut Francais de recherche pour l’exploitation de la mer (Ifremer) e dell’Agenzia spaziale europea, assieme ad un team di collaboratori internazionali, stanno elaborando nuovi metodi che permettano di controllare l’acidità degli oceani dallo spazio.

Il dr Jamie Shutler, docente del College of Life and Environmental Sciences presso l’Università di Exeter, che sta guidando la ricerca, ha dichiarato: “I satelliti sono destinati a diventare sempre più importanti nell’opera di monitoraggio delle condizioni di acidificazione degli oceani, soprattutto in aree remote, spesso pericolose, come l’Artico. Può essere difficile e costoso prendere misure dirette per tutto l’anno in certi luoghi inaccessibili. Ci riteniamo pionieri di un nuovo modo di far ricerca in maniera rapida sulle aree degli oceani terrestri più minacciate dalla crescente acidificazione”.

I metodi attuali di misurazione delle temperature e della salinità si limitano, al momento, ad apparecchiature in situ e le misurazioni vengono effettuate a mezzo navi da ricerca. Questo approccio limita il prelievo a piccole aree degli oceani, dal momento che le navi oceanografiche sono molto costose, sia nella gestione che per l’utilizzazione.

Le nuove tecniche possono utilizzare le telecamere termiche montate a bordo dei satelliti, che consentono la misura delle temperature degli oceani, e i sensori a microonde per misurare la salinità.

Entrambi questi parametri possono essere quindi utilizzati per valutare le condizioni degli oceani più rapidamente e in maniera molto più estesa di quanto sia mai stato possibile finora.

Peter Land, del Plymouth Marine Laboratory, ha dichiarato: “Negli ultimi anni, sono stati fatti grandi progressi nell’acquisizione di dati da satellite, che sono serviti a completare i dati raccolti “in situ” con le strumentazioni tradizionali”.

Sono vari i satelliti esistenti da impiegare in questa attività. Tra questi si includono lo SMOS dell’Agenzia spaziale europea, lanciato nel 2009, e il satellite Aquarius della NASA, lanciato nel 2011.

Lo sviluppo della tecnologia e l’importanza di questo continuo monitoraggio dell’acidificazione dei mari spingono a sostenere per i prossimi anni un incremento nella produzione e nell’impiego di ulteriori sensori satellitari.

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