I dentisti raccomandano una frequente pulizia dei denti per evitare che l’accumulo di tartaro provochi una eccessiva formazione di placca dentaria, il biofilm di germi che alle volte può sfociare in carie o in varie patologie del cavo orale.
La placca, com’è risaputo, può essere asportata solo manualmente, con l’aiuto di appositi attrezzi o per mezzo degli ultrasuoni e oggi, quindi, la pulizia dentale non costituisce un grosso problema.
Ma, in mancanza di dentifrici e spazzolini, come si comportavano i nostri antichi progenitori di 400mila anni fa, per tener puliti i denti?
In effetti, i denti fossili presentano depositi cospicui di placca dentaria e i ricercatori dell’Università di Tel Aviv (TAU), in collaborazione con studiosi di Spagna, Regno Unito e Australia, hanno pensato bene di studiare questi accumuli fossili, scoprendo interessanti residui di cibo e di potenziali irritanti respiratori intrappolati nella placca dentale di individui vecchi di 400mila anni, rinvenuti nella Grotta Qesem, nei pressi di Tel Aviv, il sito da cui provengono molti importanti resti umani del Tardo Paleolitico inferiore.
La ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati su Quaternary International, è stata guidata dalla prof.ssa Karen Hardy, ricercatrice dell’ICREA presso l’Universitat Autonòma di Barcellona, assieme ai professori Ran Barkai e Avi Gopher, del Dipartimento di Archeologia e delle Civiltà del Vicino Oriente presso la TAU; alla dott.ssa Rachel Sarig, della Scuola di Odontoiatria della TAU; agli archeologi Stephen Buckley e Anita Radini, dell’Università di York, Regno Unito, e al prof. Les Copeland, dell’Università di Sidney, Australia.
Il team di studiosi ha così scoperto prove dirette di quel che mangiavano e di cosa respiravano gli esseri umani che occuparono la Grotta Qesem nel Paleolitico.
L’esame della placca dentale ha infatti rivelato la prova di un primo modesto inquinamento dell’ambiente, la traccia di irritanti respiratori, la cui origine è da ricercarsi presumibilmente nel fumo del carbone che invadeva la grotta durante l’arrostimento della carne, preparazione che doveva costituire una pratica quotidiana e che lasciava depositare i suoi residui sui denti.
“Finora non si erano mai studiati i denti umani paleolitici sotto questo aspetto; vale a dire, analizzando la placca dentale depositata su di essi e le possibili implicazioni connesse. E, francamente, non ci aspettavamo neppure grandi conclusioni”, dice il prof. Gopher. “Tuttavia, i nostri collaboratori, utilizzando una combinazione di metodi, hanno trovato molti materiali intrappolati all’interno della placca. Dato che la grotta è stata isolata, ‘sigillata’, per 200mila anni, è tutto molto ben conservato”.
Bakai ritiene questa grotta una vera e propria ‘capsula del tempo’; e di fatto sono emersi tre risultati sorprendenti: carbone residuale da fuochi in ambiente chiuso; prove di ingestione di vegetali; fibre, forse residui di materie prime o forse utilizzate per la pulizia dei denti.
“Karen Hardy aveva già pubblicato studi sulla placca di denti provenienti da siti neanderthaliani, ma non più antichi di 40-50mila anni”, precisa Barkai. ”A Qesem abbiamo resti di barbecue al coperto molto più antichi. Gli esseri umani di questa grotta non solo arrostivano la carne al chiuso, ma dovevano anche aver trovato il modo di controllare il fuoco. Questo è uno dei primi casi di inquinamento del pianeta”, conclude l’archeologo, tra il serio e il faceto.
Nella placca i ricercatori hanno trovato anche tracce minime di acidi grassi essenziali, probabilmente oli di noci o di semi e piccole particelle di amido.
“Sapevamo che i nostri lontani antenati sfruttavano tutto, degli animali di cui si cibavano”, dice Barkai. “Li cacciavano e li arrostivano. Estraevano il midollo dalle ossa e di queste facevano uso per fabbricare strumenti. Ora apprendiamo che, oltre alla carne e ai grassi animali, si nutrivano anche di vegetali”, dichiara lo studioso, alludendo alla possibilità che i piccoli frammenti di fibre potessero essere usate forse come una sorta di stuzzicadenti della preistoria.
“Considerato il periodo di tempo e il materiale fossile da cui provengono, questi risultati sono estremamente preziosi, anzi ‘unici’, perché aprono nuovi scenari sulla vita quotidiana di questi esseri tanto lontani nel tempo”, conclude Barkai.