Al British Science Festival, la celebrazione annuale della ricerca scientifica britannica tenutasi dal 7 al 10 settembre scorsi presso l’Università di Bradford, è stata presentata una ricerca, condotta su uno scheletro femminile neolitico rinvenuto nell’isola scozzese di Tiree, risultato essere stato affetto da rachitismo.
Questo risultato rivela, di fatto, la comparsa di questa grave malattia in Gran Bretagna.
La notizia è stata divulgata dalla rivista Proceedings of the Prehistoric Society.
Questa scoperta è particolarmente sorprendente in quanto la malattia, che è causata dalla carenza di vitamina D, in relazione alla scarsità di luce solare, viene comunemente associata ai bassifondi urbani della Gran Bretagna vittoriana piuttosto che alle comunità agricole rurali del Neolitico scozzese.
Premettiamo che il rinvenimento dello scheletro risale al 1912, ma che soltanto ora è stato possibile condurre le indagini appropriate.
La natura della tomba – una semplice sepoltura anzichè una tomba a camera – già di per sé ha sollevato domande sui modi in cui la donna, deformata fisicamente dalla malattia, possa essere stata trattata dalla sua comunità.
“Finora si riteneva che il primo caso di rachitismo in Gran Bretagna fosse comparso nel periodo romano”, spiega Ian Armit, docente dell’Università di Bradford, “ma questa scoperta lo colloca a ritroso nel tempo, più di 3000 anni prima. E’ possibile che nello stesso periodo si siano verificati altri casi in altre parti del mondo, ma nessuno è evidente come questo. Anche se non si può dire che sia sicuramente il primo caso in assoluto, resta decisamente molto insolito”.
“La carenza di vitamina D non dovrebbe costituire un problema per chiunque viva in campagna e abbia uno stile di vita all’aperto, così si pensa a qualche circostanza particolare che abbia negato l’accesso di questa donna alla luce del sole. E’ probabile che abbia indossato un costume che le copriva tutto il corpo o sia rimasta costantemente al chiuso, ma se questa condizione fosse dipesa da un ruolo religioso o da una malattia o si trattasse di una schiava tenuta prigioniera, non lo sapremo forse mai”.
Lo scheletro fu scoperto, come detto sopra, nel 1912, insieme ad altri tre, durante uno scavo amatoriale sull’isola di Tiree, ma fu il solo portato via e quindi esposto nella collezione Hunterian presso l’Università di Glasgow, mentre degli altri sono rimaste le sole fotografie.
Il fossile era stato sempre ritenuto coevo di un vicino insediamento dell’Età del Ferro, finchè una recente datazione al radiocarbonio eseguita da un team congiunto delle Università di Bradford e Durham ha mostrato che il reperto era in realtà molto più antico, collocabile tra il 3090 e il 3340 a.C., vale a dire in pieno periodo Neolitico.
Lo scheletro appartiene ad una donna di 25-30 anni d’età, di altezza pari a 145-150 centimetri, bassa anche per gli standard del Neolitico.
Le ossa presentano varie deformità causate dal rachitismo, particolarmente per sterno, costole, braccia e gambe. Caratteristica la presenza del cosiddetto ‘petto a piccione’, tipica espressione della malattia deformante.
L’analisi degli strati di dentina che, nella crescita, aveva ricoperto i denti della donna nel corso dell’infanzia, ha permesso di scoprire dettagli di storia della sua esistenza, in particolare la dieta seguita tra i tre e i quattordici anni d’età.
Il cambiamento dei livelli degli isotopi di carbonio e di azoto mostrano segni di sofferenza da stress fisiologico, forse malnutrizione o cattiva salute generale tra i quattro e i quattordici anni.
L’analisi isotopica ha mostrato inoltre che la donna aveva vissuto in quella zona. I livelli di stronzio erano elevati, caratteristica fondamentale delle antiche comunità viventi sulle isole battute dal vento, come le isole Ebridi, dove le colture venivano fecondate con alghe ed esposte alla salinità degli spruzzi marini.
Dall’esame accurato risulta che non mangiava pesce di mare, il che probabilmente avrebbe fornito un apporto di vitamina D alla sua dieta, adeguato per prevenire il rachitismo.
Questo non deve stupire perché evitare alimenti provenienti dal mare era una pratica comune tra le comunità contadine del periodo neolitico, anche in quelle delle zone costiere dove il pesce e i frutti di mare abbondavano.
La dott.ssa Janet Montgomery, della Durham University, afferma: “Il nostro studio e le analisi dello scheletro raccontano l’esistenza grama di questa donna, la cattiva nutrizione nell’infanzia, la mancanza di luce solare durante la crescita e le deformità e disabilità dell’età adulta. E infine una sepoltura senza i soliti riti del Neolitico”.
“Le domande che ci poniamo resteranno purtroppo senza risposta, dal momento che non disponiamo degli altri scheletri del sito e le sepolture neolitiche sono rare nelle Ebridi.
Possiamo quindi solo fare ipotesi sul perchè una malattia legata soprattutto al degrado urbano possa essere emersa così presto in una comunità agricola.
Sembra significativa, anche se inspiegabile, l’avversione culturale di queste comunità per il consumo di pesce che, ove fosse stato incluso nella dieta, avrebbe potuto impedire l’insorgere della malattia”.