La monarchia marocchina e i marocchini vanno fieri della loro unicità e lo stanno dimostrando anche in questi mesi.
Quando lo scorso dicembre sono iniziate le prime proteste in Tunisia, a causa del cosiddetto effetto dominio sono scoppiate violente rivolte in tutti gli Stati dell’area Nord Africana e MedioOrientale (MENA). Dall’Algeria all’Egitto, dalla Libia allo Yemen, gli scontri in piazza non hanno risparmiato nessun Paese. Tali proteste avevano e hanno in comune la base degli attivisti, ragazzi giovani, spesso istruiti, che sventolano la bandiera della libertà; organizzati sul web grazie ai social network, le manifestazioni si spostano dalla piazza virtuale a quella reale delle città; le richieste comuni, rispetto dei diritti, più libertà, sforzi per far diminuire la povertà e la richiesta di nuovi governi eletti secondo le regole democratiche. Quest’ultimo punto implica un doveroso ricambio dell’élite al potere, e così si spiegano la “cacciata” dei due ex leader tunisino ed egiziano e le attuali rivolte contro Gheddafi e Saleh.
Ma il Marocco?! Cosa stanno facendo i marocchini? Durante le prime settimane di scontri nell’area MENA era stato dato per scontato che anche i marocchini sarebbero scesi in piazza per contestare la monarchia e per chiedere al re di lasciare il Paese. Ed invece i marocchini sono sì scesi in piazza ed hanno anche formato un movimento di protesta, le mouvement du 20 février – o movimento del 20 febbraio – nella traduzione italiana, ma non hanno mai chiesto al re Mohammed VI di lasciare il potere. I marocchini sono rispettosi del loro re, definito proprio dall’articolo 19 della costituzione come “simbolo dell’unità, garanzia della permanenza e continuità dello Stato”. Infatti, oltre a rappresentare la massima autorità politica, Mohammed VI è consacrato come “principe dei credenti” e rappresenta anche la massima autorità religiosa del paese, vantando una diretta discendenza dal profeta Maometto.
Il movimento del 20 febbraio si e formato inizialmente su Facebook e ha poi guadagnato il favore non solo della popolazione ma anche delle diverse forze politiche, dagli islamisti, che in Marocco sono rappresentati dal PJD, Partito della giustizia e dello sviluppo, alle forze di sinistra.
Non si si sta chiedendo un cambiamento di regime, ma riforme concrete. Le interviste ad alcuni esponenti politici marocchini che si riconoscono nel nuovo movimento del 20 febbraio, pubblicate dalla versione online del settimanale marocchino Telquel, evidenziano bene il carattere e le richieste del movimento. Mohamed Aghnaj, membro del Movimento Giustizia e Carità (movimento islamistica che, a differenza del PJD, si piazza al di fuori dall’arena politica) chiarisce, “quello che vogliamo più di tutto sono la giustizia, la dignità e la libertà. E non esiste un modello unico per permetterci di beneficiare di ciò. Se la monarchia parlamentare può garantirci tutto questo è la benvenuta”.
I marocchini chiedono quindi riforme politiche che aprano il regno a una sorta di democratizzazione, partendo dalla riforma della costituzione che, promulgata nel 1962, è stata successivamente riformata quattro volte e l’ultima volta nel 1996, ma le cui modifiche sono andate nella direzione opposta a quella auspicata di recente. L’attuale costituzione è, infatti, alla base della concentrazione dei poteri nelle mani del monarca che, in modo diretto ed indiretto, detiene i tre poteri costitutivi dello stato (legislativo, esecutivo, giudiziario). Quest’assetto istituzionale si scontra con l’idea di monarchia costituzionale e democratica, e rende di fatto il Marocco una monarchia assoluta. È proprio quest’assetto che si vuole modificare. Ecco perché bisogna partire dalle riforme della costituzione.
Mohammed VI alla fine dello scorso mese ha annunciato pubblicamente una profonda riforma della Costituzione, partendo dal rafforzamento della figura del primo ministro e dall’ampliamento dei poteri del Parlamento. E ha comunicato di aver affidato la revisione della stessa ad una commissione consultativa presidiata dal costituzionalista Abdelatif Mennouni, che dovrà presentare a giugno il risultato del suo lavoro, aggiungendo poi che la riforma costituzionale sarà sottoposta a un referendum popolare, la cui data non ha però precisato.
Il movimento del 20 febbraio ha raggiunto un primo obiettivo, quello della formazione della commissione incaricata di riformare la costituzione, seppur ne viene criticata la formazione perché nominata e non eletta, ma come sottolinea un suo attivista Toumader Aouidi, “la mobilitazione deve continuare e continuerà, ma in modo diverso. Il nostro scopo adesso è quello di attirare molti, noi vogliamo chiamare quelli che ancora non sono usciti in strada. Il nostro prossimo target saranno i quartieri popolari, lì dove sono presenti i veri mali della società.”