Sono tutt’altro che rassicuranti le prospettive presentate dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) nel rapporto “Assessing Global Land Use: Balancing Consumption with Sustainable Supply”. Stando ai ritmi attuali, rischiamo di distruggere fino ad 850 milioni di ettari, tra savane, praterie e foreste entro il 2050, per far posto a coltivazioni che soddisfino le nostre richieste in termini di cibo, fibre tessili e biocarburanti.
Che determinate risorse su questo pianeta, il suolo in primis, siano limitate e non riproducibili, è cosa nota ai più dall’ormai lontano 1972, quando a Stoccolma si sottolineava l’importanza di pianificare e gestire l’utilizzo delle risorse naturali in modo tale da preservarne, ove possibile, la capacità di rigenerazione, supportare la nostra economia e sopportare la nostra presenza.
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La conferenza di Stoccolma, aprendo a riflessioni importanti culminate qualche anno dopo nella definizione del concetto di sviluppo sostenibile, inaugurava un’agenda programmatica fatta di regolari appuntamenti ed incontri internazionali che in tutte le lingue del mondo hanno tentato negli anni di spiegare, con risultati non sempre soddisfacenti, la serietà della questione e ribadito l’irrimediabile urgenza di prendere provvedimenti.
Con questo documento, discusso qualche giorno fa nel corso del World Economic Forum a Davos, in Svizzera, l’UNEP tenta nuovamente di diffondere il messaggio e mettere in guardia da quella che definisce come una “realtà allarmante” delineando uno scenario che ricorda, per la cupa drammaticità dei toni e le atmosfere inquietanti, le tele del romantico pittore svizzero Füssli.
© Binh Thuan, Thien Anh Huynh / Vietnam / UNEP
Il suolo, si sa, è una risorsa non rinnovabile. Eppure la domanda di suolo non soltanto si rinnova, ma cresce a livelli vertiginosi, e minaccia conseguenze brutali. Di pari passo con l’incremento della domanda, come insegna la macroeconomia, aumenta il prezzo, non solo della terra, ma di tutti i prodotti derivati: il cibo, per dirne una. E qui suona il primo campanello d’allarme: quello della sicurezza alimentare, che tra qualche anno potremmo non essere più in grado di garantire visti i ritmi ai quali cresce la popolazione mondiale, che nel 2050 sfiorerà secondo le previsioni i 9,6 miliardi di persone, ovvero il 35% in più di quelle che si contavano nel 2012.
Dato per assodato che fermare, dall’oggi al domani, una crescente domanda aggregata non è possibile, il quesito che si pone il report è: quanta terra possiamo destinare a sfamare questa insaziabile domanda, mantenendo al contempo le conseguenze dei cambiamenti nell’uso del suolo (deforestazione, ma anche perdita di habitat e biodiversità) ad un livello “tollerabile”?
Sicuramente non tutta quella che gli attuali livelli di produzione e consumo richiederebbero. 850 milioni di ettari, per farsi un’idea, arrivano a coprire circa l’intera superficie del Brasile.
La crescente domanda di prodotti derivanti dalla terra, cui peraltro non è neanche lontanamente pensabile poter far fronte tramite un aumento dei raccolti, non è però l’unica sfida da fronteggiare: un consistente calo di produttività ha interessato negli ultimi anni parecchie regioni del pianeta.
A complicare ulteriormente il quadro c’è poi il fenomeno del degrado dei suoli, che ad oggi affligge all’incirca il 23% delle terre, e nelle sue forme più severe conduce all’abbandono di ingenti superfici che prima erano coltivate: dai 2 ai 5 milioni di ettari l’anno.
Riassumendo, ogni giorno perdiamo suolo a causa di degrado e scarsa produttività, mentre al contempo cresce la domanda di suolo, prevalentemente nei paesi sviluppati, per far fronte alle necessità di una società che ha bisogno di mangiare molta carne, avere un armadio pieno di vestiti, e scorte di biodiesel che illuminino gli appartamenti e riforniscano le automobili del futuro.
L’ottimismo, però, è insito nella natura umana, ed è così che nonostante le premesse apocalittiche il report offre un barlume di speranza. Secondo l’UNEP, è effettivamente possibile nutrire una popolazione che cresce, vestirla e garantirle energia elettrica senza depauperare le nostre foreste: è solo questione di ridimensionare i consumi, dobbiamo diventare più efficienti in termini di produzione, distribuzione ed utilizzo. L’agricoltura del ventunesimo secolo deve necessariamente reinventarsi.
Tutto è possibile, certamente, a patto che la questione arrivi, passando per le orecchie, al cuore dei diretti interessati.
Il Direttore Esecutivo dell’UNEP Achim Steiner, con un articolo sul blog del quotidiano inglese The Guardian, sottolinea infatti a proposito dell’evento una diffusa tendenza ad individuare nei grandi leaders, portatori di nobili istanze che accettano la responsabilità di guidare il sentimento popolare, i concreti promotori del cambiamento, coloro che, a conti fatti, guidano l’agenda.
Secondo Steiner, tuttavia, nulla togliendo al ruolo cruciale interpretato da personalità come Al Gore, Kumi Naidoo di Greenpeace o il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, il vero attore del processo è in realtà il sentimento popolare stesso.
L’impatto dell’attivismo collettivo, che a scatenarlo siano sindacati, ambientalisti, gruppi di consumatori, indigeni o attivisti per i diritti umani, è in grado di incidere profondamente su politica ed economia: secondo Steiner è questa la notizia che infonde speranza, nel contesto di un incontro, quello di Davos, che benchè produttivo ed appassionato, non rimane in fondo che “un momento nel lungo, lunghissimo percorso di cambiamento”.