Anche se non è il tema centrale del Baghavad Gita, testo indù che ho appena letto, un fatto che mi ha colpito è il continuo parlare di “non attaccamento”. Credo mi colpisca in questo periodo anche perché sto traslocando. Io ho cambiato sino a ora 10 case, questa sarebbe la undicesima e, credo, una delle ultime. Come ha detto una mia amica potrebbe essere la casa precimiteriale.
In questo mio continuo cambiare rilevo due cose: irrequietezza e non attaccamento.
Non ho mai nostalgia delle case, piuttosto ho una qualche nostalgia di cose accadute nelle case, di persone che ci sono state. E certo non di tutte le persone e non di tutte le cose.
Non ho attaccamento nemmeno per i cosiddetti beni materiali: io getterei via molto della zavorra che a ogni trasloco mi pare più grande e pesante. Se tengo gli oggetti è perché potrebbero tornare utili in futuro, non per puro attaccamento. Lo considero un grande vantaggio. Ci sono casi in cui buttare via però è un esercizio di ascesi, di volo, di distacco davvero da cose che pesano.
Gettare o regalare certe cose è difficile, ma io sento di doverlo fare e dopo davvero sono più contenta.
Mentre scrivo questo penso però al fatto che qualcosa si deve avere, che Primo Levi, quando scrive del lager dice che un modo tremendo e infalllibile per togliere identità al prigioniero era privarlo delle sue cose. Di questo bisogna tenere conto.
Ora, che sono in una situazione di confortevole possesso di molte cose, sto selezionando le lettere. Mi stupisco di come alcune mi scivolino dalle mani nella carta da riciclare senza sforzo apparente, mentre altre no. Altre stanno aggrappate alla mia mano finchè non le ripongo al sicuro. Sono quelle delle persone cui tengo di più, ma non solo, sono anche quelle dei momenti della mia vita cui tengo di più. E queste sono le potenziali zavorre.
Così deve aver pensato Giovanni della Croce, santo, mistico, che fu amico di Teresa d’Avila, nella Spagna del ‘500. Si scrissero molto, quando lei morì, lui conservò le sue lettere, finchè una volta comprese che proprio quelle lettere erano l’unico bene che ancora lo teneva legato alle cose materiali e le buttò.
Nonostante venga voglia di insultarlo un po’, perché ci ha privato della testimonianza di una grande mistica e di una grande donna, io un po’ lo capisco. Ma mi chiedo se liberarsi delle lettere di Teresa lo abbia anche liberato dalla sua mancanza, dal peso della sua assenza, dall’affetto che ancora durava.
Non turbi l’accostamento, ma io conosco qualcun altro che ha distrutto delle lettere importanti, sia pure per il motivo opposto. Mia madre buttò via lettere di mio padre, quelle del fidanzamento e dovevano essere parecchie dato che il fidanzamento durò 7 anni. Non potevo credere alle mie orecchie: “hai buttatto le lettere d’amore del papà? Ma perché?” “Beh, ormai ero sposata.”
Ecco mia madre non aveva buttato via le lettere in assenza, ma molto concretamente, in presenza. Però non era tutto qui, a una mia indagine più approdondita lei aveva confessato: “Non te le avrei fatte leggere, erano troppo… il papà era un tipo appassionato”.
Ora la faccenda diventava più romantica. Non era solo avere l’originale, era custodire dentro di sè, fra loro due, solo loro due le parole del loro amore. Veramente solo quelle di mio padre perchè mia mamma mi aveva detto anche: “Non sapevo mai cosa scrivere e pensa il papà mi sgridava”.
La perdita di questi due epistolari, che mi sarebbero entrambi cari, più quello del mio papà ovviamente, non mi induce però a conservare tutte le mie lettere. Ma probabilmente quelle che si salverammo questa volta, resteranno al sicuro per sempre. Per sempre…
Rose dalle tarme. Cancellate dal tempo. Infine come mai scritte.
Ehi, ehi li sento bene ora, sono Cicerone, Seneca, Petrarca e gli autori di epistolari, si rigirano nella tomba preoccupati per la sorte effimera delle loro lettere