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Imparare dalla ginestra, il fiore del deserto

Scritto da Maria Rosa Pantè il 31.10.2011

Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune.

Di fronte a questa crisi economica, finanziaria, sociale, politica e culturale che attraversa il mondo, di fronte alle ripetute esortazioni a produrre di più, a incrementare i consumi, a evitare la recessione, mi sono chiesta cosa voglia dire produrre di più. Per chi? Cosa? È l’unica via: produrre di più?

La domanda essenziale dunque è: produrre di più, essere più ricchi (a scapito di altri: abbiamo visto che è inevitabile) è il progresso?  E a chi giova questo progresso? Infine il progresso economico è l’unico possibile?

Certo la miseria non porta progresso, ma, a quanto pare, nemmeno la troppa ricchezza, soprattutto quando concentrata in pochissime mani.

E allora?

Consiglio a tutti di rileggere o leggere per la prima volta “La ginestra” di Giacomo Leopardi. È una delle sue ultime poesie, è lunga e in certi punti difficile, è “secca” e insieme densa di emozione e di lirismo. È un capolavoro poetico, ma non solo, è un messaggio profetico all’umanità.

Leopardi inizia prendendo la ginestra come simbolo per l’umanità (e sulla ginestra si conclude la lirica). La ginestra nasce nei luoghi più impervi, anche alle falde del Vesuvio, luogo che vide una civiltà rigogliosa finire in un momento a causa dell’eruzione del vulcano. Questo fatto induce il poeta a chiedersi: cosa è l’uomo? Come può l’uomo credersi immortale se basta poco per spazzarlo via? L’amara constatazione del poeta è che l’uomo è in balia della natura matrigna e dunque non può, non deve insuperbirsi come invece fa sempre.

Va sottolineato che considerare la natura matrigna non vuol dire per Leopardi offenderla e distruggerla, nella parola “matrigna” radice è “madre”. Leopardi ritiene i meccanismi fisici indifferenti all’uomo e l’uomo per sopravvivere agli eventi naturali non deve attaccare la natura, anzi, deve difendersi con la consapevolezza e l’unione solidale.

E dunque nel suo illusorio credersi al centro dell’universo l’uomo combatte contro l’uomo e non capisce che il vero nemico è appunto la natura, gli eventi naturali, per cui l’unica soluzione, l’unica forma di progresso è rappresentata dalla solidarietà, dell’umana compagnia. Da una società fondata su “giustizia e pietade”. Proprio così dice giustizia e pietade. Non solo carità verso chi è sfortunato e povero, ma prima di tutto la giustizia.

L’uomo, prosegue Leopardi, non solo è quasi un nulla in confronto a tutto l’universo, ma è un nulla  la terra e persino l’intero sistema solare. Tutto appare piccolo, infinitesimale (la descrizione della notte è vertiginosa) e, se ci pensiamo veramente, anche a noi verrà insieme da piangere  e da sorridere per quell’uomo che si crede arbitro del mondo e non vede la sua intima fragilità.

L’uomo fragile in effetti diventa forte quando non si nasconde, quando accetta la sua condizione e proprio questo lo spinge verso un’intima unione con gli altri.

Il vero progresso è questo.

Il nostro mondo da secoli quindi non va verso il vero progresso e la crisi dimostra come questo modello di sviluppo economico non va bene. È vero che insieme ci sono state grandi conquiste sociali, non ci sono mai state tante democrazie ad esempio. E forse è ingiusto criticare del tutto questo tipo di impostazione, ma ormai quest’epoca è finita. Le risorse non bastano più, incitare a produrre è criminale, altre devono essere le vie e come più volte ho ribadito la via maestra è la sobrietà consapevole. Che sia, però, rafforzata, sostanziata, nutrita di “giustizia e pietade”.

Il testo de “La ginestra” qui.

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  • Maria Rosa scrive:

    Grazie… è un comento bellissimo, conosco il discorso sulla responsabilità di Jonas e il pensiero di Bianchi (abito vicino a Bose e dunque ci sono stata qualche volta)… io sono sulla loro linea nel mio piccolo e Leopardi ha scritto da uomo preveggente, ma ancora nel 1800, quindi il discorso sulla natura matrigna è datato, ma il succo: la responsabilità, la pietade e la giustizia sono in linea coi pensieri più moderni (ed eterni) concepiti oggi per difenere la terra e noi tutti viventi insieme a lei dalla hubris dell’uomo.

  • D'Alessandro Franco scrive:

    Ho trovato negli scritti che seguono un grande spunto di riflessione rispetto al tema in oggetto. Mi permetto di porlo all’attenzione dei naviganti.
    D’Alessandro Franco

    Hans Jonas: l’Etica della responsabilità
    “La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando “apprensione” nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell’essere. Ma la paura è già racchiusa potenzialmente nella questione originaria da cui ci si può immaginare scaturisca ogni responsabilità attiva: che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui? Quanto piú oscura risulta la risposta, tanto piú nitidamente delineata è la responsabilità. Quanto piú lontano nel futuro, quanto piú distante dalle proprie gioie e dai propri dolori, quanto meno familiare è nel suo manifestarsi ciò che va temuto, tanto piú la chiarezza dell’immaginazione e la sensibilità emotiva debbono essere mobilitate a quello scopo” (Il principio di responsabilità).

    Umani perché atti ad abitare la terra
    Dopo secoli in cui la natura era più forte dell’umanità e l’uomo doveva difendersi da essa, oggi è proprio l’ambiente che è diventato fragile, sovente vittima dell’uomo, al punto che l’uomo ormai con la sua potenza nucleare è in grado di distruggere la terra. Così siamo diventati al massimo grado responsabili della terra e della nostra potenza: in quest’ottica ciò che è più difficile è non cedere all’eccesso e alla dismisura. La sfida etica ci chiede di acquisire la padronanza del nostro potere tecnico-scientifico, ponendo un limite alle nostre azioni e ai nostri progetti e riconoscendo che esistono diritti della natura, dell’ambiente, di tutti i nostri co-inquilini sul pianeta. Occorre fare questo passo a livello di coscienza sociale, fino a esprimere questi diritti mediante istituti e legislazioni giuridiche. E se l’ambiente è titolare di diritti, noi umani abbiamo dei doveri, una precisa responsabilità che, se non assunta o violata, ci rende trasgressori della legge necessaria all’abitare la terra, al costruire un mondo più sinfonico e più bello.
    È quindi necessaria un’etica della responsabilità che si preoccupi dell’avvenire della specie umana e della terra. Hans Jonas l’ha così formulata: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra». Se un tempo la responsabilità significava rispondere dei propri atti passati e presenti, ora essa è tale anche verso l’avvenire del pianeta e dell’universo. È il futuro in cui gli abitanti della terra saranno le nuove generazioni, i nostri figli, i nostri nipoti, che richiede la mia responsabilità oggi, perché oggi l’uomo può distruggere la terra: da questo potere nascono obblighi e doveri. Come siamo giunti a elaborare un «contratto sociale», così oggi dobbiamo andare al di là del sociale e del politico per elaborare un «contratto naturale», un contratto con l’ambiente! Questo senza mai dimenticare che questione ecologica e questione sociale sono due aspetti del medesimo disordine da noi provocato, due frutti della medesima volontà di potenza, del medesimo sfruttamento che non conosce doveri né limiti, del medesimo edonismo che pensa solo a se stessi, senza gli altri e contro gli altri. Quando si giunge a trattare le persone solo in funzione della loro capacità di produrre e di possedere, si finisce anche per trattare la natura e gli esseri viventi solo in funzione di un loro possibile sfruttamento, del loro valore di mercato.
    Ma accanto alla responsabilità vi è un’altra necessità per un’etica rispettosa della terra: la sobrietà. Parola detestata questa, spesso anche derisa, eppure oggi siamo più consapevoli che mai del fatto che le risorse della terra non sono infinite, lo sviluppo non è in costante crescita, la produzione non è illimitata, i consumi non possono più essere sfrenati. Per questo bisogna ritornare a quella parola attestata con grande frequenza nella Regola di Benedetto: mensura, misura. Misura del cibo, dei consumi, del tempo libero, del lavoro… Misura, cioè sobrietà, moderazione, attitudini attraverso le quali noi umani riconosciamo il nostro limite di terrestri. Misura, in senso ecologico, significa lasciar cadere le pretese non attinenti ai bisogni fondamentali ma indotte o addirittura imposte come esigenze alienanti dalla società dei consumi. Occorre che ci liberiamo dei desideri superflui per acquisire anche una capacità critica, una libertà, e non essere piegati alle richieste prepotenti del mercato. Talvolta occorre anche una rinuncia o, per usare un altro termine bandito dal nostro linguaggio, un sacrificio, cioè la disponibilità a privarci di qualcosa, nel caso che la nostra soddisfazione passeggera provochi danno all’ambiente e alle creature di cui siamo co-inquilini, ad altre genti o ad altri popoli.
    Integrare la nostra situazione nel mondo è decisivo per conoscere la nostra identità terrestre e saper vivere il nostro rapporto con la terra, questo «terzo satellite di un sole detronizzato dal suo seggio centrale, divenuto astro pigmeo errante tra miliardi di stelle in una galassia periferica di un universo in espansione» (Edgar Morin). La terra è l’unico pianeta sul quale, almeno per oggi, sappiamo esistere questa specie di animali biologici ma anche esseri culturali, gli animali umani: umani nel senso che l’uomo non è compiuto pienamente se non dalla cultura e nella cultura; umani nel senso che sanno sentirsi responsabili degli altri co-inquilini animali, vegetali e minerali, responsabili per tutti; umani perché capaci di com-passione, di soffrire con questa terra, capaci di sim-patia con tutte le creature; umani perché atti ad abitare la terra, ricercando e perseguendo la pace: una pace non solo tra gli uomini ma cosmica, cioè lo shalom, la vita piena per tutta la terra.

    ENZO BIANCHI
    Priore della Comunità monastica di Bose