Parlate male di qualcuno su Facebook facendo dei riferimenti, ma senza nominare la persona? Da oggi quello che per voi sembrerebbe una chiacchiera da bar telematica con amici potrebbe trasformarsi in diffamazione, passibile di denuncia. Sono le implicazioni di una sentenza della Cassazione che ha giudicato colpevole un maresciallo della Guardia di Finanza che su Facebook aveva usato parole offensive nei confronti di un suo collega. Nè il fatto che le offese fossero anonime, nè che il contesto non fosse istituzionale, sono secondo la Corte motivazione valide per non parlare di diffamazione.
Il finanziere aveva scritto: “attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di un collega raccomandato e leccaculo…ma me ne fotto per vendetta….”.
All’inizio era stato condannato a tre mesi di reclusione militare per diffamazione, ma era stato assolto in appello perchè le offese erano anonime.
Ora in Cassazione la sentenza è stata ribaltata perchè le offese erano circolate su Facebook avrebbero potuto ledere il destinatario.
La Quinta sezione penale ha giudicato «fondato» il ricorso del pm e ha riinviato il caso in appello, affermando che “il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente, ai fini della valutazione, che non può non tenersi conto nell’utilizzazione del social network, come la stessa Corte ha rilevato, a nulla rilevando che non si tratti di strumento finalizzato a contatti istituzionali tra appartenenti alla Gdf, nè in concreto la circostanza che la frase sia stata letta solo da una persona”.