Ad oggi sono 1.010 gli esopianeti noti: l’Archivio per gli Esopianeti, della NASA ne conta 919, mentre l’Enciclopedia (internazionale) dei Pianeti Extrasolari ne conta appunto 1.010 (le discrepanze dipendono dai criteri e metodi che si usano per confermare che quello che si osserva è davvero un pianeta). Se si considera che sono trascorsi solo 21 anni da quando è stato scoperto il primo pianeta fuori dal nostro sistema solare, non si può negare che questo sia un notevole traguardo.
Questa estate la rivista Science ha dedicato uno speciale agli esopianeti che è molto utile per fare chiarezza su alcuni punti. (i) Cosa sono i cacciatori di esopianeti e con quali metodi si va a caccia di esopianeti, (ii) quanti tipi di esopianeti conosciamo. (iii) Lo scenario è poi arricchito da un recente articolo comparso sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS); andiamo con ordine.
(i) Kepler è il più famoso tra i cacciatori di esopianeti. Ha però molti fratelli di cui non si parla molto: ci sono, ad esempio, il MEarth in Arizona, il TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) della Nasa, molto simile a Kepler, e l’europeo Cheops, il cui lancio previsto per il 2017 ha la missione di approfondire le conoscenze sugli esopianeti già osservati.
Accanto al metodo usato da Kepler e fratelli – che osserva il transito, identificando i nuovi sistemi grazie alla diminuzione della luce diffusa dal loro Sole causata dal passaggio di altri pianeti davanti alla stella – c’è quello della velocità radiale. Qui l’influenza gravitazionale esercitata da un pianeta sulla sua stella causa una specie di oscillazione del pianeta che genera un effetto domino: l’oscillazione, infatti, determina un cambiamento nella velocità radiale della stella (che non è altro che la velocità con cui la stella si avvicina e si allontana dalla Terra) e quindi nella frequenza della luce emessa, che può essere catturata da ripetute osservazioni con spettrometri molto sensibili (ad esempio, Harps dell’Eso in Cile e Hires del Keck Observatory alle Hawaii, Harps-N installato sul Telescopio Nazionale Galileo alle Canarie e i futuri Espresso e l’Automated Planet Finder). Con logiche simili operano poi strumenti basati sul concetto di astrometria (si tratta del futuro progetto Gaia dell’Esa).
Un altro metodo usato è la microlente gravitazionale (una tecnica impiegata anche per lo studio della materia oscura), che sfrutta gli effetti dei campi gravitazionali di corpi come stelle e pianeti nel distorcere la luce di sorgenti poste in lontananza. Strumenti di questo tipo sono l’Optical Gravitation Lensing Experiment in Cile e il Microlensing Observations in Astrophysics (Moa) in Nuova Zelanda. Infine Science ricorda la metodica della rivelazione diretta (direct imaging) per centrare nuovi esopianeti. In questo caso si tratta di osservare indirettamente il pianeta, ossia lo si osserva attraverso la luce che emette, con tutte le difficoltà del caso dovute al fatto che la luce è spesso oscurata dalle stelle (il The Gemini Planet Imager e Sphere, entrambi in Cile, sono strumenti di questo tipo).
(ii) Conosciamo molti tipi di esopianeti: dal waterworld GJ 1214b, al circumbinario Kepler-16b, ai gioviani caldi come 51 Pegasi b, a quelli di grandezza paragonabile alla Terra come Alpha Centauri Bb o alle superterre da poco scoperte Kepler-62e e Kepler-62f. Quelli più comuni osservati fino ad oggi, spiega Andrew W. Howard dell’Institute for Astronomy della University of Hawaii sono sistemi planetari che contano uno o più corpi celesti con una grandezza pari o fino a tre volte tanto quella della Terra, che si trovano più vicino alla loro stella di quanto non sia il nostro pianeta.
(iii) Recentemente, un nuovo studio pubblicato su PNAS arricchisce questo quadro. Erik Petigura, Andrew Howard e Geoffrey Marcy, prendendo le mosse dai dati di Kepler, hanno osservato le minuscole variazioni di luminosità di un campione di 42 mila stelle più o meno simili al Sole individuando 603 possibili oggetti planetari. L’impiego dei telescopi Keck per registrare i dati spettrali è stato fondamentale per determinarne la luminosità. Grazie a questa informazione si è potuto calcolare il diametro di ogni pianeta osservato nel momento del suo transito di fronte alla stella e individuare così i corpi più simili alla Terra. Dieci di quei pianeti, poi, si sono mostrati particolarmente interessanti: non solo avevano dimensioni paragonabili a quelle del nostro pianeta, ma le loro orbite si trovavano all’interno della zona di abitabilità.
Ma non è finita. L’importante novità del loro studio, infatti, è stata quella di applicare ai dati raccolti un algoritmo di calcolo per valutare quanti di questi pianeti potrebbero essere sfuggiti alla rilevazione. La conclusione è sorprendente: il 22% delle stelle simili al Sole ospiterebbero nella loro zona di abitabilità almeno un pianeta di stazza terrestre. Gli studiosi ritengono che nella Via Lattea ci sono quasi quattro miliardi e mezzo di pianeti potenzialmente adatti alla vita. Tutte queste ricerche aumentano la probabilità – e, soprattutto, alimentano le speranze – di trovare un pianeta abitabile.