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Bentham, chi era costui?

Scritto da Maria Rosa Pantè il 03.03.2016

“Forse verrà il giorno in tutte le altre creature animali si vedranno riconosciuti quei diritti che nessuno, che non sia un tiranno, avrebbe dovuto negar loro. I Francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è una buona ragione perché un uomo debba essere abbandonato, per motivi diversi da un atto di giustizia, al capriccio di un torturatore. Forse un giorno si giungerà a riconoscere che il numero delle zampe, la villosità della pelle o la terminazione dell’osso sacro sono ragioni altrettanto insufficienti per abbandonare a quello stesso destino un essere senziente. In base a che cos’altro si dovrebbe tracciare la linea insuperabile? In base alla ragione? O alla capacità di parlare? Ma un cavallo o un cane che abbiano raggiunto l’età matura sono senza confronto animali più razionali e più aperti alla conversazione di un bambino di un giorno, di una settimana o di un mese. Supponiamo che così non fosse; che cosa conterebbe? La domanda da porsi non è se sanno ragionare, né se sanno parlare, bensì se possono soffrire.” (da Principles of Morals and Legislation, cap. 17)

Non conoscevo il filosofo e giurista Jeremy Bentham che scrisse questa frase incredibilmente profetica (attuale no, perchè non ancora messa in pratica) nel 1789.

Me l’ha segnalata un collega filosofo, che, oltre a essere studioso di Bentham, mi avrà certo sentita proclamare il mio acceso amore, rispetto, interesse ecc. per gli animali.

Non tutti, di fronte a chi si dice fautore del diritto degli animali, reagiscono così.

Diciamo che c’è verso i cosiddetti “animalisti” una diffusa ironia, che spesso sfocia in aggressività, oppure in un sentimento misto tra: “beh io sono d’accordo, ma l’uomo è un’altra cosa. Non puoi paragonare uomini e animali”.

Io invece li paragono eccome e ci metto pure le piante.

Io paragono tutto ciò che è vivo, io metto tutto ciò che è vivo sullo stesso piano e devo dire che da quando la penso così mi sento molto meglio.

Mi sento in armonia col mondo e anche coi miei simili (che sono trasversali: animali, piante e anche esseri umani), sono persino più compassionevole verso gli esseri umani che, illusi, si credono al centro dell’universo.

Padroni assoluti di tutto e invece nell’universo sono dei puntolini, ridicoli nella loro tracotanza.  Ridicoli, ma pericolosi perché fanno soffrire tutti gli altri esseri viventi e perché stanno portando il mondo alla distruzione.

Che poi, come immaginava Leopardi, se finisse solo la specie Homo sapiens non sarebbe un gran male, perché chi è causa del suo mal pianga se stesso, il punto è che l’homo sapiens trascina nella distruzione tutti gli altri e questo francamente un po’ mi scoccia. Un bel po’.

La frase del filosofo mi è venuta in mente, quando, su un social, commentando la fotografia di un cinghiale morto sul ciglio della strada, in una pzza di sangue quasi tutti si preoccupavano dell’auto, dei danni al motore e dei rimborsi. Solo due persone hanno pensato a  quel cadavere buttato lì. Tanto i cinghiali che vuoi, sono troppi.

Noi umani siamo troppi in verità, nonostante le guerre che ostinatamente ci divertiamo a combattere.

Mi è venuto in mente che un motore non soffre, soffre il portafoglio del proprietario dell’auto, ma nemmeno lui soffre tanto quanto un cinghiale agonizzante.

Non saper distinguere, non capire che tutti soffrono e che far soffrire è sempre, sempre, sempre un MALE (anche se si fa soffrire senza volerlo, anche se si fa soffrire per il bene di qualcuno), questo non saper sentire in sé il dolore dell’altro sarà la nostra fine. Anche se per chi non sente più nulla in realtà la fine è già arrivata: è il gelo che dal portafoglio avvolge poi tutto il corpo e la mente.

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