Molte aziende leader hanno annunciato nuovi investimenti negli Stati Uniti. I numeri parlano chiaro: 100 milioni di dollari e 200 nuovi posti di lavoro per il gigante hi-tech Apple. General Motors spenderà 258 milioni di dollari per un nuovo impianto in Colorado prevedendo 10.000 nuove assunzioni. Oracle ripristinerà 130 posti di lavoro in Messico mantenendone altri 300 in Oregon. Chrysler riporterà 1.250 posti in Indiana per un esborso totale di 374 milioni di dollari. Infine Ford spenderà 200 milioni di dollari per ristabilire 450 posti di lavoro in Ohio per 12.000 nuovi occupati entro il 2016.
Numeri importanti che rischiano però di scontrarsi con una dura realtà: la maggior parte della componentistica è prodotta all’estero. Questo significa che se per alcuni manufatti, l’assemblaggio ed i lavori specialistici potranno essere effettuati negli Usa, il grosso della produzione sarà ben impiantata nei paesi dell’est del mondo.
Come nel caso di Apple, che a fronte di 200 nuovi posti di lavoro e di una nuova linea di produzione totalmente “made in Usa” – per il computer desktop iMac – continuerà a produrre la maggioranza dei suoi componenti nell’arcinota fabbrica di Foxcoon, con più di un milione di dipendenti.
Molti però ritengono che qualcosa stia accadendo nel mercato del lavoro internazionale.
Secondo Andy Tsay, uno studioso della Santa Clara University in California, “la mancanza di specializzazione della manodopera non- Usa è il fattore che influenza maggiormente le multinazionali.” Ma non è il solo. “Infatti” continua Tsay “l’innalzamento dei salari nei Paesi con un costo della manodopera tradizionalmente basso, ha inciso molto sulla decisione di alcune grandi aziende di ritornare ad investire a casa propria.”
Non sorprenderà il dato dell’Istituto di Statistica cinese, che parla di un + 20% registrato per i salari del grande continente nel 2012, rispetto a uno + 18,9 % dell’anno prima.
Per non parlare degli aumenti salariali di oltre il 10 % in India, del 7,3 % nelle Filippine e del 6% in Malaysia.
Numeri che dovrebbero favorire le arrugginite economie occidentali, prospettando per esse una nuova delocalizzazione da est a ovest. Ma gli studiosi americani non se la sentono di confermare questa macro tendenza, sottolineando piuttosto che il settore manifatturiero, ad oggi, è ancora ridotto del 3% rispetto al 2007.
“Spostare la produzione negli Usa è un’operazione costosissima” sostiene Paul Scott, presidente della Alliance for American Manufacturing. “La politica degli sgravi fiscali dell’attuale governo ha convinto molte aziende a ritornare in Usa o ad ampliare gli stabilimenti già presenti sul territorio. I minori costi energetici, l’aumento dei salari esteri, la lotta al furto della proprietà intellettuale e una politica dei tassi di cambio competitiva potrebbero aiutare in futuro le imprese americane.”
Ma forse tutto questo non basterà. Affinché avvenga un cambiamento tangibile, per Andy Tsay “l’intero ecosistema produttivo dovrebbe tornare negli Stati Uniti”.