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Una giornata al festival Ipercorpo Forlì. Workshop con Silvia Mei: il relativismo è inutile

Scritto da Federica di Leonardo il 18.09.2010

Domenica 12 settembre abbiamo trascorso un pomeriggio e una serata al Festival Ipercorpo presso i Magazzini Interstock a Forlì, località Rovere.

Il pomeriggio si è aperto con un workshop della studiosa Silvia Mei che intende, in 5 incontri nei pomeriggi del festival, cercare di colmare la lacuna che molto spesso si crea fra pubblico ed artista nel teatro contemporaneo provando a fornire a chi partecipa al workshop quell’equipaggiamento necessario ad intendere l’opera teatrale contemporanea.

I partecipanti al workshop sono addetti ai lavori o interessati che impattano per la prima volta il teatro della contemporaneità. Silvia Mei invece è ricercatrice in Performing Arts e borsista alla Fondazione Cini con un progetto sull’azionismo fotografico fine XIX secolo. Si occupa di teatro e di danza nelle loro relazioni novecentesche e contemporanee.

Per trattare di teatro contemporaneo è necessario chiedersi: cos’è contemporaneo? Di contemporaneo non si può dare una definizione definitiva. Ma anzi sempre più chiaramente si capisce che, per fruire dell’opera d’arte contemporanea bisogna dotarsi di un equipaggiamento mentale e culturale che evada dal merito teatrale e spazi dal cinema alla filosofia, all’arte. Per affrontare la domanda Silvia si serve di spunti tratti dal libro  Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo, Mondadori (2007), una raccolta di conferenze tenutesi all’Accademia Brera di Milano. Nel contributo di  Jean-Luc Nancy il filosofo ci invita a parlare di “arte oggi” e non di contemporaneo. Contemporaneo, che dovrebbe essere una categoria estetica, in questo modo si connota sotricamente. Se, dunque dobbiamo parlare di arte contemporanea , intesa come arte di questi anni, allora meglio definirla l’arte di oggi.  Resta così ancora da definire cosa sia contemporaneo. Per rispondere a questo è allora necessario chiedersi:  cos’è l’arte? E non che cosa significa un’opera d’arte; non ci interroghiamo sul senso dell’opera d’ arte, ma sull’essenza dell’arte. Per Nancy, in ultimo, è opera d’arte quell’opera che mette lo spettatore nelle condizioni di farsi questa stessa domanda cioè, mentre esperisce l’opera d’arte contemporaneamente, grazie all’opera stessa si chiede: cos’è arte?

Fra gli articoli del libello Silvia Mei ci propone anche quello di Natalie Heinich, sociologa francese: “Per porre fine alla polemica dell’arte contemporanea”. Heinich propone questa lettura: non esiste una sola arte, ma tante arti che possono coesistere; quindi le arti non si dispongono più secondo un ordine gerarchico e rompono con una visione storicistica dell’arte.  La sociologa propone una divisione in tre generi: classico, moderno e contemporaneo, che possono essere presenti e coesistere in ogni epoca storica.  Arte classica è quella che rispetta i mezzi e le regole tradizionali; ad esempio, nell’arte visiva la pittura di un paesaggio o di una natura morta.  L’ arte moderna rispetta i supporti e i materiali tradizionali ma si differenzia per l’espressione dell’interiorità dell’artista e per la continuità del corpo dell’artista con l’opera. Questa continuità  è evidente anche nell’arte contemporanea, ma esiste uno scarto fra  contemporaneo e moderno; questo scarto è dato dall’autenticità. Più precisamente autenticità è intesa come espressione  autentica della soggettività dell’artista. Continuità fra artista e opera non significa necessariamente immediatezza in quanto l’opera non esprime senza alcuna negazione ciò che prova l’artista; c’è infatti una mediazione fra l’interiorità e la sua espressione nella materia, che è data dai preconcetti, dalle stesse costruzioni mentali, percorsi di conoscenza che costituiscono lo stesse fare l’opera d’arte. Nell’arte contemporanea ci sono meno mediazioni perchè il tentativo è proprio quello di distruggere le costruzioni nella comunicazione. Contemporaneo si definisce infatti come sistematica trasgressione dei criteri artistici. La tassonomia fra classico, moderno e contemporaneo non è ovviamente chiara e spesso ci sono dei casi che si posizionano al limite fra una categoria e l’altra.

Dopo questa introduzione Silvia ci fa guardare 4 video senza dirci di quali artisti si tratta. Personalmente posso dire che è stata un’esperienza estremamente interessante. Gli artisti o gruppi erano: Mary Wingman in un video degli anni ’30, i dv8, Mats Ek e Saburo Teshigawara.

Vi riportiamo qui i link dei video che potete trovare su you tube.
http://www.youtube.com/watch?v=cJaYuejjdk8&feature=related

http://www.youtube.com/watch?v=Y-EX5lWAais

Senza conoscere la collocazione temporale dei video io, come tutti i partecipanti, ho indicato il video di Mary Wingman come il più contemporaneo dei quattro. Su invito di Silvia è poi nato un dibattito che ha toccato principalmente due argomenti.

Prima qualcuno ha sollevato il problema della scarsa fruibilità dell’arte contemporanea da parte di un pubblico poco dotato di quell’equipaggiamento di conoscenze che esulano dal teatro. A questo , il direttore artistico di città di Ebla ha risposto che spesso ha incontrato persone alle prime armi colpite profondamente da opere contemporanee. Ci permettiamo di dire che, forse, il problema della fruizione non riguarda più solo l’arte contemporanea, ma tutta l’arte. Che la gente frequenti i musei di arte classica per abitudine non significa affatto che abbia un’educazione alla fruizione dell’arte. Crediamo forse che il problema sia più generale e legato alla mancanza di momenti di educazione alla fruizione dell’arte in generale. Se ci fosse un programma di educazione all’arte strutturato, già solo questo creerebbe una  disponibilità all’incontro di un tipo di arte che è certo più scardinante e meno rassicurante di uno spettacolo televisivo.

La conversazione è poi scivolata sul problema dell’autenticità dell’opera teatrale che viene minacciata dai supporti video. Questo soprattutto in relazione al video di Mary Wingman. Secondo alcuni, uno spettacolo teatrale in video non è testimonianza fedele della creatività dell’artista. Ci sembra che, nella fattispecie, forse il discorso sia scaduto in una ricerca di autenticità che lascia purtroppo il tempo che trova. Il fatto che smentisce l’utilità di certe conversazioni, a nostro parere, è proprio la testimonianza di ognuno dei partecipanti che si è detto colpito proprio da quel video e proprio dalla sua autenticità. Erano testimonianze false le nostre? O eravamo sinceramente colpiti dalla qualità di quelle azioni, dalla loro secchezza, dalla loro precisione? Silvia Mei conclude: il relativismo a tutti costi non porta lontano: lo storico parte da  dati di fatto, da documenti, ai quali dà valore storico.

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