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La metafora del gene e la vita “artificiale”

Il termine "vita artificiale"evoca clamorose e fantasiose attese, nonostante il “primato” del gene per spiegare il significato della vita, appartenga ormai al secolo scorso

Scritto da Aldo Di Benedetto il 15.05.2014

Qualche giorno fa è stata annunciata la creazione di un organismo vivente artificiale, si tratta del noto batterio Escherichia coli cui sarebbe stato inserito un anello di DNA sintetico. Secondo il team di ricercatori dell’Institute La Jolla della California, in questo caso si può parlare per la prima volta di vera e propria vita artificiale. Un epiteto quest’ultimo, veicolato dai media, evocatore di clamorose e fantasiose attese nella pubblica opinione, nonostante il “primato” del gene, per spiegare il significato della vita, appartenga ormai al secolo scorso.

Ricordo che con l’avvento del ventunesimo secolo, Evelyn Fox Keller, fisica di formazione e poi storica e filosofa della scienza, ha pubblicato il libro “Il secolo del gene”, un’opera critica di grande interesse pubblicistico, dove l’autrice analizza, in chiave epistemologica, il ruolo e i limiti della genetica molecolare. Purtroppo, come molti libri, che evidenziano le contraddizioni e gli espedienti della ricerca e della divulgazione scientifica, esso non è più reperibile sul mercato.

DNA

In un’intervista di qualche anno fa, la Keller racconta che il gene “è una comoda stenografia per gli scienziati … uno strumento di persuasione indubbiamente efficace, non solo per promuovere programmi di ricerca e ottenere finanziamenti, ma soprattutto per vantare i prodotti di un’industria biotech in rapida espansione”. Inoltre – aggiunge la scienziata – “i biologi molecolari, quando parlano pubblicamente, raccontano storie fantastiche su cosa facciano i geni, anche se sanno perfettamente che non sono vere. Se dicessero davvero come stanno le cose, la gente non potrebbe capire, è troppo complicato”. Tuttavia “si sbagliano. Certa gente oggi adora questo genere di complicazioni”. Allora il compito di questa rubrica è proprio quello di rendere intellegibile alla pubblica opinione “questo genere di complicazioni”.

Al riguardo è il caso di ricordare che i risultati del Progetto Genoma sono stati molto deludenti rispetto alle attese; un esito che ha rimesso in discussione il dogma deterministico della genetica, secondo il quale il gene scritto sul Dna è l’insieme d’istruzioni per fare una proteina; a sua volta ogni proteina è mattone di un pezzo di noi, oppure regolatore di funzioni del metabolismo. In definitiva, i geni determinerebbero le proteine in una sequenza del tutto meccanica.

In verità, dei 25000 geni che caratterizzano il genoma umano, solo una piccola frazione, pari a circa il 10%, svolge la funzione di codifica della sintesi proteica, mentre il restante 90% sarebbe ridondante. A dire il vero, un gene può essere coinvolto nella sintesi di molte proteine, a sua volta, una proteina può interagire con più geni; per di più, un frammento riorganizzato di Dna può essere trascritto in molti modi diversi. Fra l’altro, è stato riscontrato che in alcuni genomi, una percentuale che può raggiungere il 99% non avrebbe alcuna funzione, tale per cui è stato impropriamente definito “DNA spazzatura” o “DNA egoista”, perché servirebbe solo a replicare se stesso.

Allora la ricerca scientifica più avanzata ha spostato la sua attenzione nell’identificazione e ricostruzione delle catene di relazioni e di amplificazione dei processi cellulari che regolano la formazione, la struttura e l’organizzazione dei sistemi viventi. Tale moderna impostazione ha trovato espressione nel concetto di genoma fluido giacché è stato riconosciuto che l’organizzazione del DNA è infinitamente variabile.

Pur tuttavia l’avvincente metafora del gene, inteso come elemento meccanico e isolabile, resta ben salda nel senso comune perché – dice la Keller – il gene “è una comoda stenografia per gli scienziati”.….”è uno strumento di persuasione indubbiamente efficace, non solo per promuovere programmi di ricerca e ottenere finanziamenti, ma soprattutto per vantare i prodotti di un’industria biotech in rapida espansione”.

Allora, come scrive Mae-Wan Ho – scienziata e biotecnologa – “Chi investirebbe nell’ingegneria genetica sapendo quanto i genomi sono fluidi e adattabili? La nozione di un gene isolabile e costante, brevettabile come invenzione miracolosa, è la più grande fandonia riduzionista che sia mai stata perpetrata”. Tuttavia – aggiunge la biotecnologa – “L’ingegneria genetica … è pericolosa, perché attacca il meccanismo stesso che mantiene l’integrità e l’autonomia degli organismi viventi tenendoli inestricabilmente interconnessi al loro ambiente ecologico”.

Molti ricercatori e manager di aziende biotech non gradiscono che il sipario che separa la scienza dal pubblico si apra, per cui nell’immaginario mediatico il gene resta ancora l’icona, “il linguaggio di Dio”, il fattore in grado di svelare il segreto della vita che, in un laboratorio, può essere ricreata artificialmente ma, come dice la Keller, “è giunto il momento di sbarazzarsene”.

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