Ebbene sì, ci avviciniamo a grandi falcate all’altro grande punto di svolta della filosofia occidentale, colui che dopo Cartesio e Kant, modificò per anni lo stesso pensare di fare filosofia, non solo la filosofia stessa.
Mi riferisco ad Hegel ovviamente che ognuno di voi,anche chi non ha mai studiato filosofia avrà sentito nominare almeno una volta. Non è ancora il momento però. Oggi ci dedicheremo ad un altro grande pensatore, più giovane del fantomatico Hegel di qualche anno, suo grande amico, almeno nella prima parte della sua vita e sopravviverà al maestro prendendo addirittura ila sua cattedra all’università di Berlino nel 1841.
Parliamo di Fredrich Wilhelm Joseph Schelling. Il giovane Schelling, originario di Leomberg- comune tedesco di 45 mila abitanti-, si interessa ben presto di filosofia della Natura.
Stremo oppositore del meccanicismo illuministico di origine Newtoniana, contrappone a tutto ciò l’idea che vi siano delle forze che lui definisce “spirituali” in seno alla natura. Siamo nel periodo in cui vengono scoperti i campi elettromagnetici, la biologia sta evolvendo sempre più rapidamente, ed appare evidente che una spiegazione meramente meccanicista non basti più.
Schelling quindi, muove da Fichte l’idea che la Natura sia un processo che parte dall’inconscio per arrivare al conscio, ossia verso lo spirito, attraverso formazioni sempre più complesse. Mi spiego meglio: la natura si presenta come qualcosa in perenne mutamente, o sarebbe meglio dire, in evoluzione perenne, da una forma all’altra. La Natura nella sua completezza è come se fosse uno spirito in letargo, che piano piano e poco alla volta, si risveglia. E’ evidente che qui non c’è posto per la causalità, che come già sosteneva Kant non poteva, da sola, spiegare l’esistenza neppure un di singolo filo d’erba. Si delinea una sorta di teleologia (ossia un finalismo verso un qualcosa) e non un meccanicismo come base della Natura stessa.
La posizione di Schelling, seppur si avvicini un po’ a quella di Fichte di cui abbiamo parlato la scorsa puntata, si distacca in particolare riguardo ad un punto.
Fichte pensa alla natura come puro Non-Io, vale a dire, ciò che si contrappone all’Io. Il Non -Io , ossia il Mondo, la Natura.., si presenta quindi solo come riflesso passivo della pura attività che è l’Io.
Per Schelling le cose non stanno così: è la Natura che è viva, crea, genera, è intimamente spirituale. Va da sé che il principio originario di tutto non è l’Io, come vorrebbe Fichte, e neppure io Non-Io, ma l’unità ancora indifferenziata dei due. E’ a questa identità originaria e ancora indistinta fra soggetto e oggetto ( tra Io e Natura) che Schelling da il nome di assoluto. E’ da questo nucleo indifferenziato e completo da cui tutto diparte. Non c’è superiorità dell’Io cosciente in quanto esso fa parte di una realtà più grande e globale, l’assoluto appunto.
Spirito e Natura non sono perciò realtà globali, ma formazioni relativamente distinte in seno ad un assoluto originario che le comprende entrambe e le unifica.
La domanda che sorge spontanea è, cosa può riunire le due parti della medaglia una volta che l’assoluto si è scisso fra Io e Non-Io, fra Io e Natura, o meglio ancora fra Spirito e Natura?
La risposta di Schelling è univoca e chiara: l’arte.
L’arte è la sola cosa a poter superare la frattura e ricomporre l’identità assoluta originaria fra spirito e natura. Nell’arte si manifesta all’uomo “il misterioso santuario dove in eterna e originaria unione arde come una sola fiamma ciò che nella storia e nella natura è disgiunto”. L’opera d’arte appare perciò come l’esatta riproduzione dell’assoluto, un qualcosa che supera di prepotenza anche la stessa sfera conscia dell’individuo. Nell’intuizione artistica non si esprime la sola volontà soggettiva umana dell’artista, ma la voce dell’assoluto. L’arte di presenta di conseguenza come la quintessenza dell’inconscio, la sola voce dell’assoluto praticabile per l’uomo.
“Nell’assoluta unità dello spirito in noi e della natura fuori di noi, si deve risolvere il problema come una natura sia possibile fuori di noi. La meta ultima delle nostre ricerche è perciò quest’idea della natura: se riusciremo a raggiungerla, potremmo anche essere certi di aver fatto abbastanza”.
Pensare così alla Natura significa porsi alla sua stessa altezza. Significa scorgere parte di noi in ogni cosa vivente, in quanto parti di una stessa cosa originaria. Non c’è bisogno di un Dio tradizionalmente inteso, c’è solo la necessità intrinseca di comprendere che fra Io e Natura non c’è distinzione, ma solo continuità e contiguità.
Non esisterebbe arte senza Natura. Non esisteremmo noi senza Natura.
Il film che vi consiglio questa settimana è di ostica visione, vi avviso subito, ma un capolavoro del cinema contemporaneo. E’ Poetry di Lee Chang-dong.
A venerdì!