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L’alba del pensiero. Puntata 27, dopo Kant si salvi chi può

Scritto da Alba Fecchio il 08.04.2011

Alba del pensiero - rubrica settimanale di filosofia e naturaCi siamo lasciati Kant alle spalle da qualche settimana, ma come vedremo da questa puntata, il nostro caro amico tedesco non verrà abbandonato con tanta facilità dai suoi successori.

Il pensiero di Kant infatti esercitò un’enorme influenza sulla cultura tedesca del 1700 e dei primi dell’800. I concetti che più fecero scalpore furono quelli morali ( ricordiamo il concetto della libertà del volere e di autonomia della ragione), la distinzione fra fenomeno e noumeno (ossia cosa percepita dai sensi e cosa in sé), ma anche il ruolo della fede e più in generale della religione, relegato da una parte dal maestro.

Mi limito qui a darvi un quadro generali di alcuni autori, minori, che nel immediato “post kantianesimo” riflettono su alcuni punti della dottrina del maestro.

Karl Leonhard Reinhold fu il primo in ordine cronologico a riflettere riguardo le ambiguità del concetto di “cosa in sé”. La cosa in sé non esiste, ritiene Reinhold, perché se esistesse noi la percepiremmo. Se la percepissimo, allora essa rientrerebbe nelle categorie dell’intelletto, ossia nella forma dei fenomeni dai quali invece vogliamo distinguerla. Ne consegue logicamente che il concetto di cosa in sé o è impensabile (ma allora esiste?) o non differisce dalla percezione di un determinato oggetto, ossia dal fenomeno.

Jakob Back propone un abolizione del concetto di cosa in sé in quanto il concetto di un oggetto che sarebbe esterno alla coscienza è contraddittorio: è la coscienza stessa che lo pone e lo pensa. Si ha dunque da concludere che ogni oggetto è un prodotto della coscienza. Back è indubbiamente il precursore di quel movimento filosofico che va sotto il nome di idealismo, esattamente come Fichte per il quale è l’Io pure che è la causa stessa di sé stesso e del non Io, vale a dire del mondo che ci circonda. Io e Non io sono entrambi due oggetti della coscienza.

Altre critiche a Kant vengono mosse da pensatori molto legati alla fede. Johann Hamann è uno di questi. Kant, a parer suo, pecca di razionalismo in quanto le analisi della filosofia critica uccidono la concretezza della vita che al contrario la fede religiosa e il sentimento che si esprime nei costumi e nella poesia, sono in grado di manifestare. Della stessa idea è Friedich Jacobi: non è la razionalità che rivela all’umo le più grandi verità, ma solo l’intuizione. I concetti, con le loro mediazioni, inaridiscono il contatto diretto con l’esperienza, riducendola ad astrazione e genericità. Unica via per la conoscenza è il sentimento, unito alla fede e all’intuizione.

La rivalutazione della fede e il sentimento sarà tipica di un’altra scuola tedesca, che qui citiamo per amor di completezza, sui cui nelle prossime puntate ci soffermeremo di più. Essa è la “Sturm und Drang”, letteralmente “impeto e tempesta”, ma nota come Romanticismo. Movimento violentemente anti-illuministico e anti-razionalistico. Esso affida all’arte il compito di rivelare le verità più profonde della natura e della storia.

Procediamo con ordine però. Il primo autore, maggiore se così possiamo dire e di cui vorrei parlarvi oggi, è Johann Gottlieb Fichte. Mi voglio soffermare su di lui in quanto mi sembra che occupi un ruolo fondamentale, di ponte, fra il periodo del criticismo Kantiano e il futuro Idealismo nascente.

Diamo un a cronologia di riferimento. Fichte nasce a Rammenau nel 1762 da una famiglia sassone molto povera. Riesca a condurre gli studi grazi all’aiuto di un protettore. Studia a Jena e poi a Lipsia. Studia molto Kant, lo conosce e grazie al maestro riesce a pubblicare la sua prima opera “Saggio di una critica di ogni rivelazione” nel 1791. L’opera in realtà per un errore viene pubblicata anonima. Kant in prima persona elimina l’equivoco e ne rivela l’autore: Fichte diventa molto famoso in ambito accademico.

Da questo momento in poi Fichte terrà un atteggiamento ambivalente: grande stima per Kant ma critiche forti che arriveranno quasi a ribaltare la filosofia del maestro.

Innanzi tutto parlar di cosa in sé non ha più senso per Fichte, come abbiamo detto precedentemente. E’ l’Io puro che pensa e crea tutto, anche il non-io, ossia quello che ci circonda. La polemica però riguardo la cosa in sé non è finita qui. Fichte cosa aggiunge?

Fichte si limita a fare una distinzione, che a parer sua era sfuggita ai suoi colleghi. Distingue tra dogmatici e idealisti. I dogmatici sono coloro che credono nel concetto di cosa in sé. Essi accolgono nella propria filosofia un principio estraneo alla loro coscienza, al loro stesso pensiero. Questo vale sia che si tratti di principi materiali ad esempio gli atomi di Epicuro, oppure spirituali come il Dio di Plotino o dei cristiani. Da questo concetto si fa discendere tutta la realtà, compresa la coscienza del singolo e il pensiero. Dogmatismo appunto perché il fatto originario, il barlume d’origine del tutto, appare come un dogma. Esso nella maggior parte dei casi deve rimanere inesplorato e misterioso.

Chi invece rifiuta la cosa in sé si pone sulla via dell’idealismo. L’obbiettivo sarà qui quello di risalire all’atto originario che determina ogni singolo fatto. Quello che si vuole fare è ricostruire una sorta di genesi della conoscenza, basato su una conoscenza empirica dei fatti.

Questa divisione attuata da Fichte, a mio parere, caratterizza un’altra scissione ben più ampia della filosofia in orientale e occidentale. La filosofia orientale prende la prima strada, è estremamente dogmatica e rivolta ad una ricerca interiore, personale. La razionalità per forza di cose, deve lasciare il posto al misticismo. La filosofia occidentale con Kant, e poi con Hagel, prenderà l’altra via. Su di sé porta il compito di indagare la natura, propriamente intesa, e umana “scientificamente”, evitando tutto ciò che non può essere empiricamente dimostrato. Questa divisione per fortuna in molti autori non sarà così netta. Limite o forza della filosofia occidentale, della nostra filosofia?

Il film che vi consiglio questa settimana è Moon, di Duncan Jones. Film indiendente, angosciante e liberatorio allo stesso tempo che apre ad un bell’interrogativo. E se fra mille anni saranno le macchine ad avere più sentimenti che l’uomo?

A venerdì!

 

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