In Europa siamo all’ultimo posto per la cura del patrimonio e l’ambiente e la cultura vale zero euro; è solo l’ultimo dato oggetto di un convegno nazionale a Roma di questi giorni. Ma non c’è giorno che in ambito ambientale la nostra pagella non collezioni voti del genere dal paesaggio al suolo alla natura. E’ vero, ci sono i tagli, l’austerity, la spending review, ma anche questi intanto non sono lineari –come dovrebbero- ma fatti con l’accetta.
E comunque i nostri guai risalgono a molto prima quando ancora non ‘ce lo chiedeva l’Europa’. Ci sono stati referendum, movimenti, comitati, petizioni, denunce e proposte ma l’unica risposta oltre ai tagli è stata una crescente e paralizzante conflittualità istituzionale e costituzionale per contendersi ruoli, competenze che sono andati puntualmente e rovinosamente a farsi benedire. La leale collaborazione ha da tempo lasciato il posto con gli effetti che sappiamo ad una gestione confusa, litigiosa e inconcludente e rischia di nuovo di fare una finaccia se con il nuovo titolo V non si ingranerà finalmente un’altra marcia. Ho letto le recenti dichiarazioni del ministro degli affari regionali Maria Carmela Lanzetta che sul ruolo delle regioni e il rapporto delle autonomie con lo stato prospetta ipotesi più ragionevoli di quelle circolate fino a questo momento improntate ad un centralismo assai duro a morire. La Lanzetta ha parlato di ‘Federalismo differenziato’ che fa intravedere finalmente un percorso di collaborazione.
Questo dibattito come sappiamo riguarda con il ruolo delle istituzioni anche quello di organi importanti come le Soprintendenze e altri soggetti tecnico amministrativi.
Qui vorrei solo accennare in riferimento alle aree protette e ai loro enti di gestione che costituiscono il soggetto preposto non solo ad un comparto ambientale tra i più integrati e ‘misti’ ma anche affidato ad una collaborazione istituzionale che coinvolge tutti i soggetti dallo stato alle regioni alle province ai comuni. Ciò non avviene in nessun altro ambito tanto è vero che un bel po’ d’anni fa il parlamento al termine di una indagine propose di estendere questo modello di gestione anche alle autorità di bacino di cui poi tanto per cambiare non si fece nulla.
Anche per le aree protette da tempo non si è saputo fare di meglio che tagliare la rappresentanza negli enti ora di questo ora di quello mentre i nuovi comitati direttivi nella maggior parte dei parchi nazionali non riescono a entrare in funzione. Qui non c’è neppure la scusa dei tagli. Sul piano nazionale ma anche in gran parte delle regioni ormai le cose mentre la crisi avanza si trascinano confusamente senza un disegno, una prospettiva che non sia il vivacchiare arrangiandosi.
Per averne conferma basta affidarsi peraltro alle cronache quotidiane della Rassegna Stampa di Federparchi. Ma io non voglio tornare su questioni note a partire dai pasticci della legge del senato che di tutto questo se ne infischia alla grande.
Quello che colpisce è il fatto che alle tante denunce e proposte continui una gestione che alle istituzioni riserva misure motivate e giustificate soltanto con l’esigenza di risparmiare, di far cassa; vale per il Senato, le Province, le Comunità montane, per i parchi e via a seguire.
La costruzione di una rete di parchi nel nostro paese che prese le mosse dalle regioni che fecero da battistrada anche allo stato con l’approvazione della legge 394 del 1991 per la prima volta impegnò il nostro sistema istituzionale in una nuova sfida. Tutti i livelli istituzionali erano stati chiamati a misurarsi con tematiche nuove che richiedevano ben altre competenze rispetto alla gestione storica tradizionale.
Si dovevano garantire amministratori ‘nuovi’ per competenza e conoscenza.
Non fu facile ma ci riuscimmo sia pure tra contrasti e anche litigi. Ma gli enti parco nel loro complesso ne uscirono dignitosamente. E fu merito del complesso delle nostre istituzioni e non certo solo dello stato che in più d’un caso seguì a rimorchio. Il caso più clamoroso è senz’altro quelle delle aree protette marine che gestite di fatto unicamente dal ministero stanno orami andando a fondo.
Cosa è cambiato da allora e cosa dovrebbe cambiare ora dopo il risultato delle ultime elezioni europee per ritrovare un bandolo andato perduto?
Perché non suoni più che strano strambo questo riferimento alle elezioni va detto che la vicenda dei parchi e dell’ambiente al pari di tanti altri tra i problemi fondamentali del paese sono finiti nel girone della ‘tecnica’. Governi tecnici, ministri tecnici in attesa che la politica tornasse a riprendersi il ruolo che gli compete. In quanti casi lo si è detto e messo in pratica è il caso delle province ma no è il solo. Per i parchi nei fatti si è ricorsi ugualmente alle stesse considerazioni riducendo i designati perché provenienti dalle istituzioni e quindi non dotati di competenze tecniche adeguate. Si è pensato anche a rappresentanze di categoria –agricoltori, pescatori- perché in grado di rappresentare meglio aspetti come l’agricoltura o la pesca.
Il risultato del voto restituisce al governo centrale ma anche a quelli regionali e locali in rapporto innanzitutto all’Europa un chiaro ruolo politico e istituzionale e non ‘tecnico’.
Ecco in che senso anche la responsabilità del ‘governo’ dei parchi –ma vale anche per altri comparti ambientali- va restituita chiaramente senza furbizie o manfrine alle istituzioni. E per questo non serve nessuna nuova legge perché è quanto fissa già la legge quadro del 1991.
Ecco perché con le elezioni la musica deve cambiare e non solo per i parchi.