Non so se vi è mai capitato di osservare qualcosa al microscopio. Se provate con i costituenti di un atomo è necessario illuminarli in qualche modo. Infatti, se vogliamo vedere un elettrone dobbiamo sparargli addosso un fascio di luce (ossia di fotoni).
Misurare significa appunto questo: illuminazione di una particella, diffusione dei quanti di luce, formazione dell’immagine relativa su una lastra fotografica o sulla nostra retina. Misurare significa sottoporre la nostra povera particella ad un bombardamento di fotoni che devono risultare tanto più energetici quanto più accurata si voglia rendere la misura: l’accuratezza aumenta al crescere della frequenza o, il che è lo stesso, man mano che la lunghezza d’onda diminuisce. (Ghirardi, 1997).
Il nostro povero elettrone è continuamente sottoposto a calci e sballottamenti per gli urti con i fotoni. È ovvio che il processo di misura non solo è particolarmente invasivo, ma è fonte di disturbo, interferendo con lo stato “naturale” del sistema. In questa situazione, come possiamo sapere quante e quali proprietà possedeva l’elettrone prima che il nostro sguardo si posasse su di esso (sempre ammesso le possedesse in modo oggettivo)? Se avete vissuto o letto qualcosa del genere, non potrete certo restare indifferenti di fronte a un dato ormai certo: la meccanica quantistica (MQ) è il miglior candidato per una descrizione universale del mondo fisico. Come è possibile, se per osservare un elettrone dobbiamo rinunciare al concetto stesso di oggettività? Mentre la meccanica classica presuppone che a tutte le quantità fisiche possono essere assegnate valori esatti, la MQ nega questa possibilità.
Detto in modo più rigoroso, questo significa che è impossibile conoscere con esattezza la posizione e il momento (la quantità di moto) del nostro elettrone. Non è possibile misurare simultaneamente due grandezze osservabili generiche con precisione arbitraria su entrambe. E questo vale per ogni coppia di variabili coniugate (ma non per tutte le variabili, ovviamente). Più in dettaglio, in ogni istante il prodotto tra l’indeterminazione nella posizione e quella nella quantità di moto deve essere maggiore o uguale alla costante di Planck. Ma questa è solo una formulazione semplicistica e preliminare. L’indeterminazione è anche intesa in senso più forte, come una caratteristica intrinseca dei sistemi quantistici proprio a causa del dualismo onda-particella. Dobbiamo capire se siamo noi, in quanto osservatori, che ci trasciniamo dietro una irrimediabile indeterminazione, oppure se l’indeterminazione è una caratteristica in sé, propria della natura delle cose, che si manterrebbe anche se tutti gli osservatori coscienti si estinguessero. Esiste un limite alla precisione con cui possiamo conoscere il microcosmo. Dove collochiamo questo limite? In noi stessi o nel mondo?
Non solo un problema esegetico. Innanzitutto va ricordato che in fisica il concetto di indeterminazione può assumere diversi significati: si può riferire ad una mancanza di conoscenza di una quantità fisica da parte di un osservatore, all’imprecisione con cui una quantità è misurata durante l’esecuzione di un esperimento, a una certa ambiguità insita nella definizione stessa di quantità, a una dispersione statistica in un insieme di sistemi preparati uniformemente.
Le cose si complicano con il principio di indeterminazione formulato in un noto articolo del 1927 intitolato Ueber den anschaulichen Inhalt der quantentheoretischen Kinematik und Mechanik, che possiamo tradurre così: Sul contenuto anschaulich della cinematica teoretico-quantistica e della meccanica. Il termine anschaulich ha fatto impazzire gli interpreti. Il titolo di Heisenberg è tradotto come “On the physical content …”, (Wheeler e Zurek, 1983). Nella raccolta dei suoi scritti leggiamo “On the perceptible content …”, (Heisenberg, 1984), mentre la biografia di Heisenberg curata da Cassidy (1992) traduce così: “On the perceptual content …”. Letteralmente, la traduzione più vicina del termine anschaulich è visualizzabile, ma può essere reso anche con intelligibile e intuitivo.
Un problema filosofico. Per farvi capire che non mi sto inoltrando in questioni di lana caprina segnalo che il problema è stato affrontato, tra gli altri, da vari commentatori ( Jammer 1977; Miller 1982; de Regt 1997; Beller 1999). Spesso noiosi dilemmi filologici celano complesse questioni teoriche. Nel 1925 Heisenberg aveva sviluppato il primo formalismo matematico coerente per la teoria quantistica. La sua idea di fondo era che solo le quantità in linea di principio osservabili devono svolgere un ruolo nella teoria, e che tutti i tentativi di formare un quadro completo di ciò che accade all’interno dell’atomo devono essere evitati. Nella fisica atomica i dati osservativi sono stati ottenuti dalla spettroscopia e poi associati a transizioni atomiche. Di conseguenza, Heisenberg è stato indotto a considerare i quantitativi di transizione come gli ingredienti di base della teoria; ecco la nascita della meccanica delle matrici, sviluppata con l’aiuto di Born e Jordan.
Anche se resta profondamente ancorata alla meccanica classica, l’idea centrale della meccanica delle matrici è questa: le quantità fisiche devono essere rappresentate da matrici autoaggiunte in spazi infinito-dimensionali, poi identificate con gli operatori nello spazio di Hilbert. Esempio: sistemi semplici possono essere realizzati con spazi finito dimensionali: ad esempio, un sistema costituito da un’unica particella di spin 1/2 si può modellizzare con lo spazio di Hilbert C2, che ha dimensione 2. Infatti in questo caso tutti gli stati non sono altro che la combinazione lineare di due stati fondamentali: |+>, spin up, e |−>, spin down. Purtroppo per i sistemi con un numero infinito di gradi di libertà uno spazio di Hilbert di dimensione finita non basta più (qui bisogna procurarsi un matematico e supplicarlo di costruire modelli di dimensione infinita!).
Uno studio pubblicato l’anno scorso su Nature aveva riportato l’attenzione della comunità scientifica sulla prima prova formale della versione originaria del principio di indeterminazione. Il team di ricercatori propone una dimostrazione formale del principio in un paper disponibile dal 6 giugno scorso su arXiv.org. “Il nostro lavoro mostra che non si può misurare qualcosa con una precisione migliore dell’incertezza quantistica sulla scala di Planck”, spiega Paul Busch, uno degli autori dello studio. Paul Busch e colleghi ritengono che gli errori combinati in misure ripetute della posizione o della quantità di moto obbediscono al principio di Heisenberg, e che il valore era sempre più piccolo per i casi in cui i due valori venivano considerati contemporaneamente.
Non tutti sono d’accordo. Nel 2004 la misura della polarizzazione di un singolo fotone aveva già permesso a Aephraim Steinberg e Lee Rozema (Università di Toronto) di dimostrare la congettura elaborata due anni prima dal fisico giapponese Masanao Ozawa. Proprio come accade per posizione e momento, anche la polarizzazione lungo due assi differenti non può contemporaneamente essere conosciuta con precisione arbitraria. Applicando una sequenza di misurazioni deboli che disturbano minimamente il sistema, ma la cui media restituisce un risultato compatibile con una sola misurazione forte, i ricercatori canadesi hanno scoperto che, in media, le misure di polarizzazione disturbano il sistema circa la metà di quanto prevede la formulazione originale di Heisenberg. La presenza di numerosi salti quantici rende l’esperimento poco generalizzabile: da questo punto di vista è sensata l’obiezione di Busch. La definizione di errore che lo strumento di Ozawa utilizza non è universalmente valida e non può mettere in discussione il principio di Heisenberg.
Se la teoria di Ozawa regge, allora il mondo non è così indeterministico come sembra, e ogni computer quantistico è hackerabile. Potremmo però controbattere dicendo questo: se Alice e Bob si scambiano informazioni ed Eva tenta di intercettarle, è ovvio che Eva non ha alcun controllo sullo stato del sistema quantistico in esame; di conseguenza Eva necessariamente disturberà il sistema proprio nel modo cui viene previsto dalla versione originaria del principio di indeterminazione (governare le interferenze vuol dire governare i tentativi di hackeraggio). Da un lato i sostenitori di Ozawa sfruttano la logica della misurazione debole per abbattere i limiti insiti nella formulazione originaria di Heisenberg, restituendoci un’immagine del mondo indipendente dallo sguardo dell’esperienza soggettiva. Dall’altro abbiamo Busch che ci riporta con violenza alla congettura originale di Heisenberg.
Capite bene che la traduzione del termine anschaulich è davvero cruciale: non è un semplice prurito filologico in quanto consente di mettere in discussione il realismo ingenuo, fiducioso nell’esistenza di una realtà oggettiva, esperibile e condivisibile da tutti in quanto tale.
Heisenberg non può certo essere annoverato tra gli ingenui. Come mostra la critica al tentativo di Bohr di salvare la visualizzabilità dei processi atomici, Heisenberg era convinto che “solo il processo di osservazione possiede una realtà effettiva, quella costituita dai suoi esiti”, (Ghirardi, 1997: 117). Una posizione positivista che richiama da vicino quella di Mach sui costituenti microscopici di un gas: “ogni asserzione che faccia riferimento a qualcosa al di là della specifica esperienza diretta è priva di senso”, (Ghirardi 1997: 117). Se siamo d’accordo con Heisenberg nel ritenere che la nostra relazione cognitiva con il mondo è fallace, allora non è difficile capire come tradurre di anschaulich/anschaulichen.
Bibliografia:
Beller, M. (1999) Quantum Dialogue, Chicago University Press.
Cassidy, D.C. (1992) Uncertainty, the Life and Science of Werner Heisenberg, New York: Freeman.
Cassidy, D.C. (1998) Answer to the question: When did the indeterminacy principle become the uncertainty principle?, “American Journal of Physics”, 66: 278-279.
Ghirardi, G. Un’occhiata alle carte di Dio, Il Saggiatore, 1997.
Heisenberg, W. (1925) Über quantentheoretische Umdeutung kinematischer und mechanischer Beziehungen, “Zeitschrift für Physik”, 33:879-893.
Heisenberg, W. (1926) Quantenmechanik, “Die Naturwissenschaften” 14: 899-894.
Heisenberg, W. (1927) Ueber den anschaulichen Inhalt der quantentheoretischen Kinematik and Mechanik, “Zeitschrift für Physik” 43 172-198. (Traduzione inglese in Wheeler and Zurek, 1983: 62-84).
Jammer, M. (1974) The Philosophy of Quantum Mechanics, New York: Wiley.
Miller, A.I. (1982) Redefining Anschaulichkeit, in A. Shimony and H.Feshbach (eds) Physics as Natural Philosophy, CambridgeMass.: MIT Press.
Regt, H. de (1997) Erwin Schrödinger, Anschaulichkeit, and quantum theory, “Studies in History and Philosophy of Modern Physics”, 28: 461-481.
Wheeler, J.A. e Zurek, W.H. (eds) (1983) Quantum Theory and Measurement, Princeton University Press.