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La barbarie dello specialismo, il declino della cultura e della democrazia

Scritto da Aldo Di Benedetto il 21.02.2014

Alfred North Whitehead, uno dei massimi esponenti della storia delle scienze, noto per i Principia Mathematica, un’opera fondamentale di logica, scritta assieme a Bertrand Russel, nella fase più matura della sua vita, sentì il bisogno di riconciliare le cosiddette scienze esatte con la cultura umanistica, considerata il caposaldo della civiltà.

Per questo, oltre che un illustre matematico, egli fu filosofo ed epistemologo. Nella sua opera La scienza e il mondo moderno, dell’ormai lontano 1926, ma con il sapore di grande attualità, Whitehead sostiene che la formazione di professionisti nelle specializzazioni del sapere aumenta la somma delle conoscenze negli specifici campi, tuttavia tale successo condiziona negativamente la sfera delle conoscenze.

Acropoli di Atene

Whitehead riteneva che la specializzazione “presenta pericoli” in quanto “produce menti unidirezionali”: “un chimico ha scarse conoscenze nella zoologia, è un debole conoscitore del teatro elisabettiano ed è del tutto all’oscuro della metrica della poesia inglese. Sulla conoscenza della storia antica forse è meglio tacere”. Comunque, “i chimici non sono peggiori degli ingegneri, dei matematici, o degli eruditi in materie classiche. Il sapere efficiente è sapere specializzato, appoggiato da una ristretta conoscenza di materie utili e a esso subordinate”.

Tuttavia, ciò che più emerge nella riflessione del grande matematico sono le insidie derivanti dalla specializzazione che si ripercuotono e si amplificano nelle nostre società democratiche. Tale per cui “La forza ordinatrice della ragione è indebolita. Le menti difettano di equilibrio”; si acquisisce una visione riduttiva e parziale, perdendo di vista la complessità delle circostanze. Allora – precisa lo scienziato – “il compito di coordinare è lasciato a coloro che mancano della forza o delle qualità per riuscire in qualche carriera specifica”. Quest’ultima affermazione, all’ordine del giorno, la dice tutta sulla mediocrità della classe politica e sul degrado delle istituzioni democratiche.

JoseOrtegayGasset

José Ortega Y Gasset

Nel medesimo periodo storico del XX secolo, precisamente nel 1930, il filosofo e saggista, José Ortega Y Gasset, nella sua famosa opera “La ribellione delle masse”, invita alla riflessione su un concetto che definisce “la barbarie dello specialismo”, ripreso di recente nell’avvincente saggio di Giuliano Da Empoli “Contro gli specialisti: la rivincita dell’umanesimo”.

Il filosofo spagnolo passa in rassegna l’evoluzione della scienza dal 1600 in poi, caratterizzata dall’avvento del metodo sperimentale con Galileo Galilei, l’evolversi del metodo riduzionista con Cartesio, l’apoteosi del meccanicismo culminato con l’opera di Newton. Allora, lo sviluppo della fisica classica ebbe profonde ripercussioni sulla società e sull’economia, propiziando l’era industriale che richiese agli uomini di scienza di specializzarsi: il filosofo, tuttavia, precisa “gli uomini di scienza e non la scienza”, la quale non sarebbe “più veritiera se si separasse dalla matematica, dalla logica, dalla filosofia”.

Secondo Y Gasset “In precedenza gli uomini potevano dividersi, semplicemente in sapienti e ignoranti, in più o meno sapienti e più o meno ignoranti”. Lo specialista, invece, mostrandoci il radicalismo della sua novità, “Non è un sapiente, perché ignora formalmente quanto non rientra nella sua specializzazione, non è neppure un ignorante, in quando conosce perfettamente la sua particella di universo”. La singolare conclusione cui giunge il filosofo, è che lo specialista, o come si definisce nel gergo comune l’esperto, “è un sapiente-ignorante”, che Y Gasset considera “cosa estremamente grave, poiché significa che si comporterà, in tutte le questioni che ignora, non già come un ignorante, bensì con tutta la petulanza di chi nella sua specificità è un sapiente”.

Nel suo libro, Giuliano Da Empoli ha dedicato un intero capitolo al “ritratto di un ignorante istruito”, definito arrogante, ma insicuro, che ha bisogno di “circoscrivere il perimetro dei propri interessi per assicurarsi una forma di controllo sul mondo”; “che ha dietro di sè tutto il peso dell’istituzione, i titoli dell’accademia, la gerarchia dell’organizzazione, l’appoggio di altri specialisti simili a lui” .
In questi ultimi anni, come ricorda Da Empoli, a seguito della crisi economica, non a caso, è tornata alla ribalta la figura di J. M. Keynes ma, un suo biografo ha scritto: egli fu “il più brillante non economista che si sia interessato allo studio dell’economia”, appassionato di filosofia e arte, sposato con la grande ballerina russa Lydia Lopokova, “ermafrodita mentale, capace d’incrociare conoscenze maturate in ambiti diversi per arrivare alla conoscenza approssimativa della realtà, anziché al modello di un mondo ideale”.

Giuliano da Empoli

Giuliano Da Empoli

La sua formazione e la sua visione non erano certamente quelle degli attuali superburocrati della finanza, analisti quantitativi, legati ad algoritmi matematici, con l’illusione di eliminare l’imprevisto, di cancellare ogni dubbio della vita economica, obnubilati dal culto dell’infallibilità del mercato. Nel 2008 le loro complicate formule per azzerare il rischio sono state invalidate dalla storia con l’ineludibile crollo dei mercati internazionali “drogati” per lunghi anni dalla speculazione finanziaria.

La deificazione della tecnologia e il trionfo della tecnocrazia, hanno pervaso ogni ambito di vita, alimentando a dismisura lo sviluppo industriale; ma l’utilitarismo contingente pragmatico e sperimentale ha innescato un circuito di retroazione tra scienza e tecnica con il conseguente crollo delle difese e dei sistemi omeostatici di regolazione della biosfera e del nostro sistema immunitario. Il medico igienista Aldo Sacchetti, nella sua opera “Scienza e Coscienza”, afferma che “La tecnica – nel cui etimo greco si associano significati di arte, artificio, inganno – inserisce il pensiero astratto e lineare dell’uomo, nei processi circolari della natura, con effetti separatori, dia-bolici in senso etimologico”.

La metafora della macchina, impersonata con il computer, si è appropriata persino dell’intelligenza umana ma, nella concezione originaria coniata da John von Neumann nel 1940, il termine si riferiva a una persona che esegue calcoli meccanici. Più di recente, gli specialisti delle varie discipline, tra cui medici, architetti, ingegneri, avvocati, economisti, burocrati hanno accolto con molto favore ed entusiasmo questa tecnologia, nell’illusione che le decisioni non dipendano più da loro.

Anche nei programmi scolastici dilaga arbitrariamente l’epiteto della tecnica e la tecnologia assume un significato miracoloso. A parere dei neo riformatori, essa favorirebbe l’accesso al lavoro dei giovani, anticipando l’ingresso ai settori disciplinari. Il Liceo Scientifico, ad esempio, ha acquisito un nuovo piano di studi denominato “Liceo scientifico tecnologico” che, a parere degli “illuminati” riformatori, dovrebbe consentire l’accesso diretto a un’area produttiva dei diversi settori tecnologici; tra gli aspetti, per così dire, innovativi del piano di studi, si esclude l’insegnamento del latino a favore dello studio dell’informatica e dei sistemi automatici.

Chaplin

Lo stesso può dirsi per il Liceo della Scienze Umane che acquisisce un nuovo corso denominato economico-sociale; anch’esso non prevede l’insegnamento del latino, per lasciare spazio allo studio del diritto, dell’economia e un’altra lingua, oltre all’inglese, ormai accettato come lingua universale. D’altro canto, le discipline classiche e umanistiche vanno perdendo il loro valore, ridotte ad ambiti passionali, a torto ritenuti inutili per la società post-moderna. Tra queste il greco e il latino, lingue basilari per la cultura, l’educazione e per la stessa tecnologia: si pensi all’informatica che impiega tutti termini di derivazione latina, oppure la medicina il cui vocabolario è intriso di greco antico, le scienze naturali e la biologia le cui classificazioni internazionali sono in lingua latina. Non bisogna dimenticare che lo studio del greco e del latino arricchisce la comprensione e la consapevolezza della nostra origine e della nostra identità biologica, storica, architettonica, artistica; perfezionando la comprensione dei nostri valori comuni e delle matrici culturali che accomunano i paesi europei.

In questi giorni il designato premier dovrà scegliere i ministri che andranno a comporre la sua squadra di governo; sull’argomento un quotidiano nazionale ha pubblicato un editoriale dal titolo “Il nodo dei tecnici. L’occasione per tornare al primato della politica”. Guarda caso, l’editorialista sostiene che la politica è diventata nel corso degli anni un potere debole, incapace di decidere, quasi privo di legittimità; a suo parere, la soluzione tecnica non è la scelta migliore. Riferendosi in particolare al profilo del Ministro dell’Economia, egli si chiede quale sarebbe la soluzione più idonea, che individua in una figura credibile e affidabile. Allora ci poniamo la domanda: credibile su cosa e affidabile per chi?

Il poeta Thomas Stearns Eliot ha scritto “Dov’è la sapienza che abbiamo perso con la conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso con l’informazione?”. Alimentata dai potenti sistemi informatici, l’informazione è allo sbaraglio, non ha una definita direzione, non finalizzata per un fine superiore.

Come sostiene l’illustre sociologo e filosofo Edgar Morin, l’appropriazione della conoscenza su un numero crescente di problemi vitali, da parte degli esperti e degli specialisti, ha creato un “deficit di democrazia, l’indebolimento della percezione globale e del senso di responsabilità” [….] “più la politica diventa tecnica, più la competenza democratica regredisce” [….]. “Così, mentre l’esperto perde la capacità di concepire il globale e il fondamentale, il cittadino perde il diritto alla conoscenza”. Nella società post-moderna i cittadini sono condannati “all’accettazione ignorante delle decisioni di coloro che si ritiene sappiano, ma la cui intelligenza è miope, perché parcellizzata e astratta”. Pertanto, l’evoluzione in una democrazia cognitiva è possibile solo all’interno di una riorganizzazione della conoscenza, la quale presuppone una “forma di pensiero volta non solo a separare per conoscere, ma anche a interconnettere ciò che è separato dal frazionamento delle discipline: l’essere umano, la natura, il cosmo, la realtà”.

“L’etica della comprensione umana costituisce senza dubbio un’esigenza chiave dei nostri tempi d’incomprensione generalizzata”, però essa richiede un complesso percorso di riforme che coinvolgano, l’educazione familiare, la formazione scolastica dell’obbligo e universitaria, la convergenza delle scienze fisiche e naturali con le scienze umanistiche, in un’ottica transdisciplinare, una riforma radicale del nostro pensiero, “non programmatica ma paradigmatica, poiché concerne la nostra attitudine a organizzare la conoscenza”.

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  • Paolo Scelfo scrive:

    Zazza, mi pare che l’unica sciocchezza su questa pagina sia il suo commento