Oggi affrontiamo uno dei personaggi più importanti della scuola di Francoforte. L’abbiamo già incontrato la settimana scorsa, usato da me più che altro come pretesto per proporre una riflessione sul antisemitismo e, più in generale, sul razzismo.
Si tratta, come avrete di certo capito, di Theodor W. Adorno.
Contestualizziamo.
Adorno nasce in terra tedesca nel 1903 da una famiglia di origine ebrea. Costretto all’esilio con l’avvento del nazismo, la sua riflessione permane per tutta la sua vita intorno sulla società che è a lui contemporanea. Si parla per questa ragione di Adorno più come sociologo che come filosofo. Nella realtà dei fatti, l’analisi che Adorno conduce è di una estrema lucidità e disinvoltura e le sue opere sono impossibili da categorizzare come opere sociologiche piuttosto che filosofiche.
Gli interessi del nostro filosofo sono molteplici e toccano l’etica, la politico, l’estetica fino alla musica. Adorno si presenta come un eccellente musicologo. Scrive monografie dedicate ai più grandi compositori “classici” come Wagner o Mahler. Cito un’opera su tutte La Filosofia della musica moderna ove egli contrappone la musica di due compositori: Schomberg e Stravinskij.
Secondo Adorno la musica si presenta come l’arte moderna per eccellenza, quella cioè in grado più di tutte di rappresentare il momento presente. La musica stessa però non può essere ridotta a pura merce, ad oggetto di consumo. Deve mantenere la sua altezza, la sua aura.
Adorno per questa ragione non ama la musica di tipo “popolare”, categoria nella quale egli pone anche il Jazz. Tale tipologia di musica svolge solo una funzione di tipo evasivo per le masse, serve cioè al popolo per illudersi di poter uscire dal meccanismo perverso di lavoro-merce-capitale.
In tal senso, come poi ritroveremo soprattutto nella riflessione di W. Benjamin, la riproducibilità tecnica delle opere d’arte- cioè il fatto che si possa fruire più facilmente e più rapidamente da parte di tutti delle opere d’arte come disegni, musica ma anche film..-non ha in sé una valenza positiva. Tutt’altro. Essa svilisce il valore artistico dell’opera stessa.
L’arte per Adorno non deve acquietare gli animi, non deve avere una funzione distraente, ma deve, al contrario, compiere e proporre una critica radicale della società. Contrapporsi alla realtà fattuale.
Possiamo dire che Adorno si trova ossessionato per tutta quanta la sua vita da tre filosofi in particolare: Husserl, Hegel e Freud.
Per ciò che riguarda Freud, l’abbiamo già visto la puntata scorsa: il suo è un tentativo di applicare delle teorie e degli studi psicanalitici alla sociologia.
Husserl è il filosofo di partenza per ciò che riguarda invece lo studio riguardante la conoscenza. La fenomenologia di Husserl si presenta come un ottimo metodo per fuggire dal punto di vista “totalitario” psicologista, ma ha il limite di ridurre il soggetto all’oggetto e viceversa. Bisogna evitare di “ feticizzare la conoscenza”, sostiene Adorno, e un buon modo per evitarlo è di riprendere in mano la cara vecchia dialettica hegeliana.
Vero interlocutore adorniano, infatti, è senza alcun dubbio Hegel. La dialettica va ripresa in mano, e va esaltato non tanto il terzo momento (quello della Sintesi, per intenderci) come sosteneva Hegel stesso, ma il momento della negazione. Si parlerà per tanto di dialettica negativa.
Ad esempio: al concetto, Adorno preferisce il non concettuale, perché esso è sicuramente già contenuto dal concetto stesso perché la conoscenza non possiede mai completamente i suoi oggetti per sua stessa natura, resta sempre, cioè, in rapporto con quello che Adorno definisce “l’eterogeneo”.
Vedremo la settimana prossima come questa ripresa del meccanismo dialettico si presenti nell’opera forse più importante che Adorno scrisse a quattro mani con Horkheimer: “La dialettica dell’Illuminismo”.
Questo era solo un antipasto, sperando non sia troppo indigesto…!
Il film che vi consiglio questa settimana è The Discendants, di A. Payne.