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Cambiamento climatico: noi giornalisti dobbiamo accuparcene?

Scritto da Paolo Ferrante il 18.07.2010

Prendo spunto da un lunghissimo commento all’articolo “Basta con gli orsi polari? Combattere lo scetticismo su cambiamento climatico” per affrontare la questione se abbia senso o no occuparsi di cambiamento climatico da parte di noi giornalisti.

Credo che la risposta sia sì, per varie ragioni. Ho letto qualche tempo fa un bellissimo libro di Michael Crichton sul problema mediatico del cambiamento climatico, State of Fear, 2004 (Stato di Paura, 2005). Si tratta di un romanzo molto avvincente e che consiglio assolutamente di leggere sul controllo da parte dei media di fatti reali o costruiti di sana pianta per far credere all’opinione pubblica e ai governi che il cambiamento climatico sia quello che in verità non è, un problema urgentissimo da affrontare. Questo arduo compito viene perseguito utilizzando le paure ataviche che albergano nella profondità dell’essere umano, scatenate contro lo sviluppo economico, la tecnologia e la società con lo scopo di far arricchire le fondazioni a capo dell’inganno.

Ripeto, consiglio il libro perché penso che la scienza vada tenuta sotto il mirino dell’opinione pubblica, soprattutto quando, come in questa epoca, ci sono grandissimi interessi economici che tentano di usare lo sviluppo tecnico/scientifico per mero profitto, anche a scapito della salute, del futuro e della dignità dell’essere umano.

Tuttavia, credo che il cambiamento climatico sia un tema che va tenuto – da parte di noi giornalisti o, molto più modestamente, da parte di questo giornale – in grande considerazione, perché l’opinione pubblica deve comprendere cosa sta accadendo.

E cosa sta accadendo, dunque?

L’uomo vive in un ambiente finito, nel senso che la Terra è un ecosistema limitato e interconnesso. Questo semplice concetto non ha bisogno di grandi modelli sul clima o sugli ecosistemi per essere compreso. Detto questo, occorre guardare a cosa sta succedendo nel nostro limitato ecosistema: la popolazione mondiale sta crescendo come mai prima d’ora era accaduto. Se ogni essere umano consumasse quanto un americano medio, probabilmente il nostro pianeta collasserrebbe in pochi anni allo stato attuale delle cose.

L’ossigeno nell’atmosfera è prodotto dalla fotosintesi. Se, per necessità di allevamento e legname da costruzione, continueremo a disboscare tutte le aree verdi del pianeta, gli effetti ci sarebbero, eccome. Che cosa accadrebbe (o che cosa accadrà) non posso dirlo, ma posso senz’altro dire che non sarebbe (sarà) nulla di buono.

Un esempio che va molto di moda ultimamente è quello degli abitanti dell’Isola di Pasqua, che hanno distrutto il proprio ecosistema, distruggendo infine se stessi, in pochi secoli. E non pretendevano SUV, condizionatori, vacanze all’estero e quant’altro. Volevano solo mettere delle facce di pietra in piedi e rivolte all’orizzonte.

E’ già successo una volta, potrebbe succedere di nuovo. Ma è anche successo che popolazioni come gli aborigeni australiani abbiano vissuto nel loro ambiente in perfetta armonia e senza distruggere la natura circostante. Come hanno fatto? Occorre studiarli, come molti scienziati stanno facendo, e imitarli.

Cosa posso fare nel mio piccolo per mettere in guardia i miei simili su un futuro apocalittico come questo? Posso scrivere, posso mettere in comunicazione la scienza e gli scienziati con l’opinione pubblica, posso dire con parole semplici quello che è meglio fare e non fare per rispettare l’ecosistema, che è finito e può sopportare solo un numero finito di esseri umani che si comportino in determinati modi. Scrivere cercando di farmi guidare solo dal puro desiderio di informare e condividere: è questo ciò che mi riprometto di fare nella speranza di dare una possibilità in più alle future generazioni.

Paolo Ferrante
Caporedattore

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